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Area – Perché le madri uccidono?

La violenza in famiglia, tra le mura domestiche, sui minori è un fenomeno diffuso e – dicono le statistiche – in  costante aumento. Generalmente l’autore della violenza è più maschile che femminile (ma non è irrilevante la percentuale dei casi di corresponsabilità); l’atto di violenza può essere il maltrattamento fisico, quello emotivo o psicologico, fino all’abuso sessuale, ed è tendenzialmente  recidivante e ripetitivo nel tempo ma non continuativo.
I cosiddetti fattori di rischio, considerati più ricorrenti ma non esclusivi,  che incidono sull’autore della violenza sono le condizioni di disagio economico ed emarginazioni  sociale, la dipendenza da alcolici  e sostanze stupefacenti, lo stress, le forme e le sindromi depressive ed i disturbi di personalità. Gli atti di violenza che si consumano in famiglia ai danni dei bambini – ed in moltissimi casi, lo sappiamo,  ai danni delle donne – sono e restano per lo più sommersi e circondati da un clima omertoso e dal silenzio, dovuti in parte al timore di rappresaglie, alla vergogna, alla speranza che “le cose cambino”, alla voglia di difendere il gruppo familiare di appartenenza, ed all’abitudine/accettazione della violenza, considerata “normale”.

L’infanticidio – inteso secondo la definizione anglosassone del termine, come uccisione di  bambini di età compresa tra zero e dodici anni –  in genere non è il “vertice” di atti di reiterata violenza  ma, più spesso, nasce come azione isolata e non premeditata; nella lunga storia giuridica che, nel tempo, ha delineato e punito in modo diverso il reato di infanticidio, ricorre la configurazione di soggetto attivo a carico della madre, di cui  si accertano le eventuali condizioni di abbandono materiale e morale, in particolare nei casi di delitto commessi dopo il parto.

Nelle scorse settimane il ricorrere, quasi il rincorrersi nella cronaca, delle notizie di infanticidio ha richiamato l’attenzione su questa orrenda tipologia di delitto e, più in generale, sugli omicidi in famiglia che sarebbero aumentati di  trenta volte negli ultimi dieci anni. Oltre la metà dei delitti (51,5%) avviene in casa o comunque nell’ambito della famiglia; il più delle volte la vittima è la donna e nel 68% dei casi l’autore dell’omicidio rivolge l’arma del delitto contro se stesso (omicidio-suicidio).  Nel corso del Convegno Internazionale organizzato da “Differenza donna” (svoltosi nel gennaio scorso a Roma) sui programmi per “Prevenire la violenza in casa”, è stato anche rilevato che le donne compiono molto meno omicidi degli uomini (il 7%) e, che se le donne prendono in mano un’arma per uccidere nel 70% dei casi lo fanno  in famiglia.

Ma torniamo ai fatti di cronaca più recenti e a quelle notizie –  agghiaccianti – di neonati soppressi dalle madri o abbandonati e lasciati morire o delle mamme-assassine che hanno infierito sui corpi dei loro bambini. Infanticidi e “figlicidi” che rimbalzano sulle pagine dei giornali e nei telegiornali, Merano come Cogne e.. come in altri luoghi del nostro Paese, quello che una certa ed ancora insuperata retorica ama definire “Il paese della mamma”, prima che della famiglia.  Ed ogni  nuovo caso ci costringe a confrontarci con storie sconosciute ed individuali, con figure di donne le une diverse dalle altre, accomunate dal fatto di aver ucciso con le loro mani i propri figli. Confrontarci con i singoli casi non ci aiuta a capire. Non si può mai capire perché una madre uccide!

Le madri assassine sono tutte diverse: ci sono quelle che – dopo l’omicidio – la legge dichiara “non punibili” per infermità  di mente; alcune di loro vengono ricoverate nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Siviere e si dice che  non  riescano a ricordare di aver ucciso e l’operazione di rimozione è irreversibile, altre ricordano ed invocano la loro morte come unica consolazione ad un dolore insopportabile. Ci sono anche le altre, quelle che uccidono i loro neonati in quello che viene definito “il tempo delle lacrime”, la depressione post- partum, il “baby blues”; insomma in quella condizione specifica di turbamento psichico che costituisce la ragione del diverso trattamento sanzionatorio rispetto all’omicidio volontario. E poi ci sono quelle che premeditano il delitto dei figli come  “rito liberatorio” o per consumare una vendetta contro i padri dei bambini,  ed altre che in un momento di “buio mentale”, uccidono ma hanno storie di normalità e di altre maternità alle spalle e – dopo l’atto omicida – risultano normali alle perizie psichiatriche. Inutile ed impossibile elencare la diversità dei casi. Né appellarsi alla “mistica femminile” e chiedersi se madri si nasce o si diventa ? Di certo,  ogni volta che una madre uccide  lo fa per odio di sé prima che per odio del proprio figlio, e nel bambino su cui infierisce vede una parte del proprio  essere, un prolungamento della sua esistenza che è stato l’evento del parto a “portare fuori” dal suo corpo. Ogni madre che uccide  il figlio annienta  se stessa ed è per questo che dopo, cerca e se può si dà la morte; nel groviglio – che per talune diventa un labirinto –  dell’identificazione infinita tra madre e  bambino, può trovare spazio anche una sorta di “delirio di onnipotenza” per il quale la madre che ha dato la vita sente di poterla togliere,   ed in una psiche fragile accade che la natura venga sovvertita ed ogni argine travolto con forza e violenza.

Se è vero, come pare, che il numero degli episodi sia aumentato una qualche ragione ulteriore bisogna cercarla; e la si potrebbe trovare  in quella sorta di  “fragilità crescente” e quasi collettiva che sembra diffondersi nelle società postmoderne, effetto di un aumento di tensioni, all’interno della famiglia e fuori dal gruppo di appartenenza. E poi la famiglia, con le sue modificazioni silenziose ma rivoluzionarie – qualitative e quantitative, sociali e demografiche –  che si sono consumate a ritmo accelerato in questi ultimi tre decenni; scompare la famiglia allargata e patriarcale in cui convivevano più generazioni e si affermano nuove tipologie familiari:le  mononucleari (coppie con o senza figli), le monogenitoriali (con una prevalenza di madri sole), le famiglie ricostruite (in cui almeno uno dei partner proviene da una precedente esperienza coniugale), le coppie di fatto ed i single.

La diffusioni di nuovi modelli familiari e le profonde trasformazioni intervenute producono nuovi bisogni e domande sociali che non è facile intercettare e che sembrano sfuggire anche alle più puntuali indagini sociologiche. Gli esperti sostengono che la famiglia – anzi le famiglie – siano sempre più “autopoietiche”, isole chiuse che diventano norma a se stesse, ai margini del vivere sociale e delle sue regole. C’è, in linea di tendenza, un indebolimento identitario, delle identità sia personali che familiari ed un allentamento/cedimento degli ambiti di appartenenza, causa ed effetto del “sovraccarico mediatico” e dell’aumento dei consumi. Oggi la famiglia è sola ed in bilico tra il gestirsi come una piccola impresa o il farsi e rafforzarsi come comunità solidale.

La risposta passa anche attraverso l’inserimento della “comunità piccola” in una trama di rapporti comunitari, in una rete di appartenenze e legami non contrattuali ma identitari,  in una comunità sussidiaria  e pluralista ma non relativista. Nel contesto comunitario la famiglia è un bene sociale relazionale ed un “luogo aperto” e nell’ appartenenza comunitaria la famiglia può trovare alcune delle risposte ai suoi bisogni più profondi, alle sue fragilità, ed  a quel senso di solitudine che logora l’anima e che dispera. Come disperate sono le madri assassine. Nessuna mamma vuole uccidere, la prima tragedia è la sua.

Isabella Rauti

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