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Secolo d’Italia – Approfittiamo delle Olimpiadi di Pechino!

Thelma & Louise vanno in vacanza. Non insieme e soprattutto non in macchina, per evitare “tentazioni finali” e questa è l’ultima puntata prima della pausa estiva. Ed abbiamo deciso, essendo praticamente alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino, di dedicarla ad una questione irrisolta del mondo dello sport, in particolare del mondo delle atlete.
Si tratta – e molti casi venuta alla ribalta delle cronache giornalistiche (e non solo del giornalismo sportivo) lo dimostrano – delle donne dello sport italiano e della loro difficoltà/impossibilità, di conciliare le scelte di maternità con la pratica agonistica. Stiamo parlando di un nodo centrale del  mondo dello sport, che potremmo così riassumere: per la categoria degli sportivi non professionisti non c’è disciplina specifica che regolamenti le prestazioni lavorative e, quindi, non è prevista tutela previdenziale né – ancora e quindi ! – alle atlete può essere riconosciuta la indennità di maternità né  forme di sostegno nel momento in cui, per maternità, sospendono  temporaneamente la  prestazione sportiva.

Nello specifico, la tutela della maternità nel settore sportivo è una questione che resta controversa perché l’operato delle atlete agoniste, anche  di alto livello,  rimane nella sfera dell’attività dilettantistica e, alle atlete è negato il riconoscimento del rapporto di prestazione sportiva (anche se svolta a titolo oneroso), mancano cioè la regolamentazione del rapporto di lavoro, il destino previdenziale e restano solo rimborsi forfetari di spesa, indennità di trasferta e premi e, in alcuni settori, un compenso.

La disciplina delle “professioni”  secondo la quale alcuni sport, infatti, non vengono riconosciuti come tali è contenuta nell’attempata  Legge 23 marzo 1981 n.91 (novellata nel 1996); e ne risulta che gran parte degli sportivi  italiani che esercitano attività sportiva agonistica o semiprofessionistica a titolo oneroso sono esclusi dalle tutele previdenziali e, rientrando formalmente nella categoria dei “dilettanti” non professionisti,  ricevono compensi secondo contratti di collaborazione sportiva  appunto, per prestazioni di attività dilettantistiche. E, ancora, in vizio – non in virtù! – di questo, la maternità delle atlete non può essere contemplata  né tutelata, in quanto  nessuna delle discipline sportive femminili  è ritenuta professionistica  e compresa  nell’ambito di quelle  regolamentate dal Coni  e che conseguono la qualificazioni dalla Federazioni sportive nazionali. E, così,  nello spazio concreto che passa tra  sport  professionistico e sport dilettantistico, ma anche nelle sacche sommerse del falso dilettantismo,  scivola quel nodo – accennato all’inizio – della maternità  non tutelata, e che non riesce a trovare cittadinanza nè riconoscimento nei “patti-contratti”  e nelle scritture private  tra società ed atlete.  E si tratta, non solo di  forme di precariato ma anche di vere e proprie discriminazioni basate sulle differenze di genere.

Alla vigilia dei giochi olimpici di Pechino – sui quali ci sarebbe molto da dire, ma non è questa la sede e, comunque, in un’atmosfera piena di polemiche – sarebbe opportuno, quanto meno, aprire  il dibattito su questo  vuoto normativo che riguarda, in particolare, la tutela delle donne che praticano sport a livello professionistico. Si consideri che la citata legge 91/81, che regola il rapporto tra società sportive e atleti professionisti, fu varata in particolare per disciplinare il mondo del calcio: grazie ad essa le prestazioni sportive vengono considerate oggetto di contratto di lavoro subordinato e l’atleta può avvalersi di tutte le tutele del caso, dall’assistenza sanitaria al trattamento pensionistico; la previdenza degli sportivi professionisti è assicurata dall’Enpals con il “Fondo speciale” autonomo e, la loro attività professionale è equiparata alla categoria dei lavoratori dello spettacolo. E, fin qui, può andare bene ma, ad un esame più attento, emerge che in Italia (su 45 federazioni sportive esistenti e molte di più le discipline al loro interno) solo sei sport sono a pieno titolo considerati professionistici: Calcio (serie A, B, C1 e C2 maschile); Pallacanestro (serie A1 e A2 maschile); Ciclismo (gare su strada e su pista approvate dalla Lega ciclismo e maschili); Motociclismo (velocità e motocross maschili); Boxe (I, II, III serie nelle 15 categorie di peso); Golf (Fonte: Associazione Assist, Associazione Nazionale Atlete).

Semplificando, quello che di fatto si verifica, è l’impossibilità per le atlete italiane di essere definite in senso normativo professioniste, mentre – di fatto e nella realtà  –  centinaia di migliaia di loro professioniste lo sono ma non hanno nessun riconoscimento né giuridico, né sportivo. E, il non potersi avvalere della legge n.91 , quindi  essere escluse dalle tutele previdenziali, non avere diritto a un contratto “tipo”, non avere la possibilità di un TFR, non avere alcuna tutela assicurativa  prevista dall’ENPALS per i professionisti, non essere salvaguardate in caso di malattia e maternità etc non solo crea uno scenario di assenza di diritti ed uno scenario lontano dallo spirito sportivo ma potrebbe allontanare le donne dallo sport e, comunque, metterle nella condizione insopportabile ed ingiusta di scegliere tra le legittime aspettative di maternità e le potenzialità  atletico-agonistiche.

Un segno positivo può essere individuato, di recente,  nella scelta del CONI (il 23 febbraio 2007)  di chiedere ufficialmente alle Federazioni  – con una delibera di Giunta – di tutelare le azzurre che vogliono avere un figlio, modificando gli Statuti per inserire appunto nuove norme; nell’art.29 del Titolo nono dei Principi fondamentali degli Statuti delle Federazioni Sportive nazionali  si affronta esplicitamente la questione della “tutela sportiva delle atlete in maternità” e del diritto al mantenimento del rapporto con la società sportiva di appartenenza ed alla conservazione del punteggio maturato nelle classifiche federali. Ma i riscontri a queste indicazioni ed alla richiesta di modifica degli Statuti, sono stati ancora pochi: la risposta è arrivata, sembra, solo  dalla Federscherma, dalla Federazione tennis tavolo e dalla FederCaccia (che non a caso vantano campionesse mamme!) e da poche altre, non più di una decina.

Nel tempo, sono state presentate in Parlamento Proposte di Legge sulla tutela previdenziale degli atleti o, nello specifico, sulla tutela della maternità delle atlete che praticano attività sportiva agonistica dilettantistica; tra gli altri ricordiamo quelle presentate dall’On. Moroni, dall’On. Ballama e dall’On. Manuela di Centa , ma la discussione si è sempre arenata ! Il mondo politico può e deve fare la sua parte ed  il mondo dello sport italiano – e lo vogliamo ribadire alla vigilia dei Giochi –  pure! Lo sport italiano non può rimanere indietro, non riuscendo a garantire alle sue atlete, condizioni di parità di accesso alla pratica sportiva, a tutti i livelli ed in tutte le fasi della vita, così come indicato anche nella Risoluzione del Parlamento Europeo su “Donne e sport”. Si tratta, insomma, di dare alle atlete gli stessi diritti riconosciuti alle  lavoratrici e, in attesa di colmare il vuoto legislativo o di correggere il difetto legislativo esistente, si potrebbe procedere  con uno statuto delle sportive che preveda le tutele del caso – e che dia concretezza al principio di uguaglianza tra i sessi contenuto nell’art. 21 dello Statuto del Coni – e con linee guida contenenti forme di disciplina interna, cui le Federazioni e Società sportive devono (non possono !) adeguarsi.

Isabella Rauti

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