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L’Occidentale.it – Contro l’inverno demografico

Pubblichiamo la lettera inviata al Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, da senatori di diversi gruppi. L’iniziativa, promossa da Gaetano Quagliariello (Cambiamo – Coraggio Italia), è stata sottoscritta da Pier Ferdinando Casini (Autonomie), Lucio Malan (Forza Italia), Riccardo Nencini (PSI), Annamaria Parente (Italia Viva), Isabella Rauti (Fratelli d’Italia), Matteo Richetti (Azione), Massimiliano Romeo (Lega), Luigi Zanda (PD).

L’Italia è il paese europeo dove si nasce di meno. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat, nel 2020, anche in conseguenza della pandemia, si sono registrati un minimo di nascite e un massimo di decessi e un numero medio di figli per donna pari a 1,29 (nello specifico, 1,18 per le cittadine italiane, indice che sale a 1,29 grazie alla componente straniera, che tuttavia non ci permette di lasciare il fondo della classifica europea).

In Europa tutti i Paesi membri, nonostante le differenze, presentano indicatori al di sotto del tasso di sostituzione e il calo delle nascite e l’incremento della longevità stanno cambiando profondamente il profilo della popolazione europea nel suo complesso.

Da alcuni recenti studi spicca un ulteriore dato preoccupante: l’emergenza demografica non è più appannaggio della sola civiltà occidentale, rappresentando, viceversa, un fenomeno destinato a diffondersi su scala globale.

Secondo uno studio dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington pubblicato su “The Lancet”, la popolazione mondiale raggiungerà probabilmente il suo picco nel 2064 a circa 9,7 miliardi di persone, per poi contrarsi entro il 2100 giungendo a 8,8 miliardi di persone. Si prevede che entro il 2100, 183 dei 195 Paesi analizzati avranno tassi di fertilità totali (TFR) ben al di sotto del livello di sostituzione di 2,1 nascite per donna necessario per mantenere inalterato il numero di abitanti: globalmente il TFR diminuirà costantemente, da 2,37 nel 2017 a 1,66 nel 2100.

Particolarmente allarmante, poi, lo scenario delineato nei Paesi ad alta fertilità. Nell’Africa Sub-sahariana ci si aspetta ad esempio, per la prima volta, un calo al di sotto del livello di sostituzione, che dovrebbe passare da una media di 4,6 nascite per donna nel 2017 a solo 1,7 nel 2100.

Nel medesimo studio si prevede che in Italia la popolazione, che ha raggiunto il suo picco di 61 milioni di abitanti nel 2014, crollerà a circa 28-31 milioni nel 2100, dimezzandosi nell’arco di soli 80 anni.

Le conseguenze socio-economiche della crisi demografica sono molteplici e tutte drammatiche, non solo per il calo della popolazione in numeri assoluti, ma anche per i problemi legati al suo progressivo invecchiamento. Il calo della popolazione giovane diminuisce infatti l’offerta di forza lavoro, con il rischio di determinare vuoti in alcuni settori, generalmente ad alta specializzazione, più difficili da integrare con la forza lavoro offerta dall’immigrazione. A rischio è anche la tenuta del sistema previdenziale e di quello sanitario, che difficilmente sarà in grado di gestire la maggior necessità di cure della popolazione di età media più alta.

Destinato ad aggravarsi è anche lo spopolamento delle aree interne, già da tempo interessate da un progressivo abbandono in favore delle zone costiere e delle grandi città.

L’incremento della popolazione anziana genera anche una diminuzione della propensione al rischio d’impresa, all’innovazione e alla creatività. Secondo il citato rapporto Lancet, in termini di PIL si prevede che entro il 2100 l’Italia precipiterà dalla posizione di nona più grande economia globale, quale era nel 2017, al 25esimo posto.

Gli effetti negativi si riversano anche sulla tenuta del tessuto sociale e relazionale del nostro Paese, generando solitudine per gli anziani e un impoverimento strutturale della coesione comunitaria e solidaristica.

La diminuzione delle nascite e il progressivo invecchiamento rischiano di gettare il Paese in una crisi strutturale di decrescita. Ciononostante, l’attenzione al calo demografico sembra essere inversamente proporzionale ai suoi effetti negativi. E la circostanza appare particolarmente preoccupante se si considera che secondo le previsioni Istat il punto di non ritorno, individuato intorno a una soglia del 30% di popolazione ultrasessantenne, sarà raggiunto dall’Italia già nel 2025.

Come arginare il declino demografico? Gli studi sul rapporto causa-effetto tra spesa pubblica e nascite, che analizzano le misure messe in campo dai diversi Governi della UE negli ultimi anni, dimostrano che i sostegni alle famiglie (soprattutto se strutturali) hanno generalmente un’efficacia positiva ma molto contenuta sull’aumento dei tassi di fecondità. L’aumento della spesa pubblica, sia in termini quantitativi che qualitativi, rappresenta dunque una condizione necessaria ma non sufficiente per invertire la tendenza in atto. Ciò perché essa ha ragioni e radici ben più profonde del mero problema economico, che tuttavia viene spesso esibito come causa unica.

Alla base del fenomeno vi sono fattori di matrice culturale: il valore della genitorialità e in specie della maternità hanno un ruolo sempre più marginale nel dibattito pubblico e sociale. È necessario, dunque, non solo puntare su politiche attive di spesa, ma anche incrementare politiche sociali che valorizzando la genitorialità consentano di abbandonare la prospettiva del breve periodo e recuperare la concezione dei figli come futuro del Paese.

Questa medesima finalità è perseguita dai progetti di legge depositati alla Camera e al Senato per istituire la Giornata della Vita Nascente. Si tratta di proposte non onerose e traversali, che mirano a coinvolgere tutto il Paese in un grande dibattito che rappresenti un’occasione di riflessione sull’importanza dell’esperienza genitoriale.

Senza natalità non c’è futuro, e senza futuro non c’è ripresa.

Occorre pertanto una seria riflessione, anche in vista dell’attuazione del piano non a caso denominato “Next Generation” EU, sul tema della rinascita demografica, che dev’essere affrontato come assoluta priorità del Paese.

Il tema non può più aspettare: per questo si richiede l’apertura di una sessione straordinaria del Parlamento, che rappresenti una pubblica occasione di confronto ma anche e soprattutto di definizione di concrete misure di intervento.

[Fonte: loccidentale.it]

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