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agenziastampaitalia.it – Italia nazione “invertebrata” con due anime, quella “Romana” e quella “Italiana”

itainveret(ASI) Teramo – La premessa di questo mio speciale di approfondimento sulla Nazione Italiana per gli storici nazional – popolari sia di destra che di sinistra, sul concetto di “Italia Invertebrata” e sul revisionismo sul Risorgimento, inizia nel 2006, quando stavo scrivendo presso l’Università di Teramo la mia tesi sperimentale di laurea in Scienze Politiche indirizzo storico – politico del Vecchio Ordinamento sull’ “Italia e le Origini della Questione Meridionale (1860 – 1861), allorché mi sono imbattuto in alcuni testi che trattavano l’argomento e su cui si basa questo speciale di approfondimento giornalistico, ossia: G. Fergola “Italia Invertebrata”, Controcorrente, Napoli 1998; G.Volpe “L’Italia che nasce”, ed. Vallecchi, Firenze 1969; G.Galasso “L’Italia come problema storiografico”, Utet, Torino, 1981; M. Venziani, “Processo all’Occidente”, Sugario, Milano, 1990; I.Rauti, “Campane a Martello”, Marzorati, Ravenna, 1989; J.Evola, “Gli uomini e le rovine”; B. De Giovanni, “Togliatti e la cultura meridionale in Togliatti e il Mezzogiorno”, vol. I, Riuniti, Roma 1977; A. Gramsci, “Note sul Macchiavelli”, Einaudi, Torino, 1953; A.Gramsci, “Passato e Presente”, Einaudi, Torino 1953; A.Gramsci, “Gli Intellettuali”, Einaudi, Torino 1953; A.Gramsci, “Il Risorgimento”, Einaudi, Torino, 1954.

Molti storici “antirisorgimentalisti”, nazionalpopolari, revisionisti sull’unità nazionale che hanno trattato in maniera approfondita la storia della genesi della nazione italiana, solitamente contestano l’equipollenza fra “unità statale” (cioè politica) da un lato e “unità nazionale” dall’altro, cioè fra “Stato e Nazione”. 

Secondo quanto scritto da  Gabriele Fergola in “Italia Invertebrata”, se con il Risorgimento nel 1860 fu conseguita improvvisamente ed inaspettatamente l’unità statuale e politica italiana, non lo stesso può dirsi per l’identità nazionale. 

Il Fergola, per avvalorare la sua tesi sostiene che l’idea per cui la nazione italiana è nata col Risorgimento è rifiutata da tutti gli storici italiani e stranieri nazionalpopolari, in primis da Gioacchino Volpe, secondo il quale, la nostra nazione odierna, diversa e differenziata da Roma e dal suo impero universale, nasce nel Medioevo, grazie soprattutto all’influenza longobarda. 

Analizzando l’opera di Volpe, “L’Italia che nasce”, possiamo notare che lo storico, demonizzando la retorica volta a considerare la storia d’Italia continuazione di quella romana, precisa che: “il punto di partenza della nostra storia, intesa come storia di un popolo, entità spirituale non comincia molto prima di quel declinante Medioevo…”; infatti, solo “col Cristianesimo e con i primi barbari, noi cominciamo a vedere un qualche profilo di vita italiana”. 

Questa tesi, è sostanzialmente condivisa anche dal Galasso che dopo aver marcato la differenza fra l’ “italianità” e la “romanità”, afferma che “La Storia d’Italia ha inizio come in Francia ed in Spagna ed in tutto l’Occidente già romano, dal declino di Roma, dalla rottura con la continuità romana…. E quanto all’Italia – precisa lo storico – la rottura può essere suggestivamente vista, fuori dalla tradizione più diffusa, nella discesa dei Longobardi nella penisola che ne rompe l’unità politica, inaugurando il dualismo fra Nord e Sud, dando inizio alla storia storia più rilevante ed originale del potere temporale”. 

Inoltre, precisa il Galasso, nella sua opera “L’Italia come problema storiografico”: “persino gli storici che vedono una continuità fra storia “romana” e storia “italiana” come il Mommsen, come il Salvatorelli che fa risalire la nazione italiana alla guerra sociale del I secolo a.c., come il Solmi che vede, addirittura, nascere una nazione italiana ancora prima della fondazione e dell’espandersi di Roma, come il Barbagallo che fa risalire al III secolo a.c., ed alla prima unificazione realizzata dai Romani, la nascita della nazione italiana, respingono la semplicistica tesi di un’Italia diventata nazione solo con il Risorgimento ed il 1860″. 

Gabriele Fergola nel primo capitolo del suo libro sul rapporto fra il Risorgimento e la nazione, afferma che ance Evola e Prezzolini, d’accordo con Galasso, ritengono che la nazione italiana è nata nel Medioevo, facendo distinzione all’interno di essa fra due anime, quella “italiana” (ovvero particolaristica) e quella “romana” (ovvero universalistica). 

A tal proposito, l’autore di “Italia Invertebrata” sostiene che “se la Francia divenne nazione ben prima della rivoluzione grazie ai suoi re, se la Spagna, secondo Amèrico Castro, acquistò una coscienza nazionale ben prima del matrimonio dei re cattolici, grazie alla fusione dell’elemento romano – visigoto con quello islamico ed ebreo, se dell’esistenza della nazione tedesca nessuno ha dubitato ben prima di Bismark e del 1870, non si vede perché un analogo discorso non debba farsi per l’Italia, rientrante anche sotto tal profilo nel contesto europeo”, benché secondo Fergola, bisogna precisare che “….v’erano modi diversi di intendere la Nazione Italiana: Federico II e Dante l’intesero e amarono in maniera assai differente dal Petrarca e dal Macchiavelli. Ma, comunque, v’era coscienza dell’esistenza in Europa di una nazione diversa da quella francese, spagnola, inglese e tedesca”.

Inoltre, esaminando i tratti salienti della storia nazionale italiana, molti storici nazionalpopolari revisionisti sul Risorgimento, hanno ritenuto che, almeno inizialmente, il Meridione non faceva parte della nazione italiana, soprattutto considerando che gli Italiani, nell’Alto Medioevo, si identificavano con i Longobardi e che, il loro dominio si estendeva solo nella parte centro – settentrionale della Penisola, perciò il Mezzogiorno, almeno per tutto l’Alto Medioevo, rimase in parte estraneo alla penetrazione longobarda, sia per l’influenza bizantina, sia per la costituzione dopo l’anno Mille, grazie ai Normanni, di uno Stato unitario indipendente al Sud.

Pertanto, gli storici anti risorgimentali nazional popolari, estranei alle tendenze campaniliste, separatiste ed antinazionali di alcuni storici dello stesso filone revisionista sul Risorgimento, hanno sposato l’immagine di “dimensione multinazionale” della nazione italiana, formulata dal Galasso, da cui il Fergola che appartiene a questo filone storiografico, ha coniato la definizione di “Italia Invertebrata”, secondo la quale, in Italia esistono due nazionalità, poiché una “nazione italiana”, non esclude l’esistenza di una “nazione napoletana”, cioè meridionale, comprendente tutte le genti dal Tronto allo Stretto di Messina che si fuse in quella italiana soltanto con l’unificazione del 1860. 

Il concetto di “Italia Invertebrata” sta ad indicare l’esistenza di una nazione caratterizzata fin dal Medioevo dall’irrisolto contrasto fra l’ “Italia Romana” (espressione di un potere universalistico, come quello del Papa e e dell’Imperatore), e l’ “Italia Italiana” (ossia espressione di forze particolaristiche come ad esempio le entità locali comunali del centro – nord e il regno nel Sud).

Dunque, proprio, partendo dal “dualismo” presente nell’anima nazionale del nostro Stato, sovente gli storici anti risorgimentalisti nazional popolari che hanno studiato le origini della nazione italiana, sostengono che il Risorgimento ha rappresentato solo il processo di unificazione politica dell’Italia e non della nazione che, secondo loro, era avvenuto già da otto, nove secoli. 

Inoltre, è doveroso sottolineare che, tramite il concetto di “Italia Invertebrata”, è stato tentato di dimostrare che la nazione italiana, durante il processo di unificazione del paese si identificava solo in minima parte con la fazione risorgimentale e che, quindi, v’era un differente modo di “sentire l’Italia” tra i difensori del “Trono e dell’Altare”, cioè fra coloro che decisero di sostenere i governi preunitari. 

Infatti, secondo quanto ci dice Marcello Veneziani nella sua opera “Processo all’Occidente”, col Risorgimento si scontrarono due modi diversi d’intendere la comunità nazionale, e di amare la patria: “Se poi di amore patrio si deve parlare, anche coloro che dall’altra parte difendevano le proprie radici, la propria cultura, il proprio re e le proprie tradizioni, avevano il diritto di definirsi patrioti…”; infatti. “nel Risorgimento si fronteggiavano due diverse idee di patria, entrambe degne di rispetto ed entrambe probabilmente unilaterali, l’una poco sensibile all’idea di patria come radice e come tradizione, l’altra poco sensibile all’idea di patria come missione e come risposta di modernità”. 

Inserendosi nel ragionamento di Marcello Veneziani, il Fergola precisa che nel Risorgimento lo scontro era tra “libertà astratte” di stampo liberale ed illuministico e “libertà concrete” di tipo tradizionale, ossia fra la “patria concreta” dei legittimisti contrapposta a quella astratta degli ideologi e degli intellettuali”. 

Gli storici antirisorgimentalisti nazionalpopolari di destra, per avvalorare le loro teorie storiche sulla nazione italiana, considerano il Regno d’Italia sabaudo la continuazione delle repubbliche fantoccio giacobine e del Regno di Murat, vedendo nelle insorgenze della plebe meridionale contro i Francesi prima ed i Piemontesi successivamente, un moto d’indipendenza nazionale di tipo nazionalpopolare.

Tra l’altro, questa idea “destroide”, è stata contestata non solo dalla storiografia risorgimentale in genere, ma anche da quella Fascista con in testa Giovanni Gentile. 

Infatti, la storiografia risorgimentale “gentiliana”, nell’intento di salvare capre e cavoli – afferma il Fergola – da un lato respinge gli immortali principi dell’89 e dall’altro giudica il Risorgimento una peculiarità esclusiva italiana, rescissa dal contesto storico europeo e mondiale, ma in particolare da quello antecedente che fu la rivoluzione francese”.

In effetti, sostiene autorevolmente il Fergola, nessuno può mettere in dubbio che il Risorgimento creò uno Stato centralizzato di tipo napoleonico (ovvero francese) che anziché assorbire le varie tradizioni locali, trasformandole ed unificandole, tese ad annullarle, perciò è logico che queste tradizioni quando sono riuscite a sopravvivere, hanno rivelato un pericoloso carattere antiunitario ed antinazionale. 

Quindi applicando la teoria dell’ “Italia Invertebrata” alla realtà odierna, il fenomeno delle “leghe”, oggi di grande attualità, secondo Gabriele Fergola (prima sintomo della crisi dello Stato nazione), non può essere intrapreso in maniera qualunquista, come, ad esempio, una mera espressione di razzismo o di campanilismo, poiché aldilà delle apparenze, è da analizzare con maggiore attenzione”. 

Infatti, se le leghe da un lato, spiega il Fergola, sono le eredi dell’Italia municipalista che si opponeva ai disegni egemonici universalistici dei Papi e degli Imperatori come il Barbarossa, e Federico II, che non permise la formazione di uno Stato unitario nella Penisola (cioè una riedizione di quell’Italia antiromana di cui parlava Evola), sotto un altro aspetto rappresentano anche il riemergere di tradizioni locali ignorate dallo Stato centralista nato dal Risorgimento, in seguito riscoperte prima dal Fasciamo, poi dal Comunismo italiano degli anni Cinquanta e Sessanta. 

Quindi, al tirar delle somme, secondo gli storici revisionisti nazionalpopolari sul Risorgimento, soltanto una nazione intesa come continuità nazionale inserita a pieno titolo nel contesto europeo e mediterraneo, totalmente in grado di recuperare e soddisfare certe istanze locali (Inon necessariamente separatiste), può solidificare e valorizzare l’anima “invertebrata” dell’Italia, superando la “Questione Meridionale”, avvicinando il cittadino allo Stato che, sottoposto alle pressioni delle lobbies economiche internazionali capitalistiche, appare sempre più simile ad uno “scatolone vuoto”, svuotato dei suoi poteri sovrani, perciò incapace di tutelare le istante dei cittadini. 

Anche gli storici marxisti revisionisti del Risorgimento, quindi, socialisti e comunisti, hanno contestato il binomio “Stato – Nazione”, creato dalla storiografia risorgimentale, reo di aver causato, la nascita della “Questione Meridinale”, ma, a differenza degli storici nazionalpopolari di destra, essi influenzati in parte da Croce e da Gentile, non mettono in discussione il fatto che la nazione italiana sia nata solo nel 1860. 

Infatti, scrive il Fergola “…se in Gramsci l’aggancio della filosofia della prassi è soprattutto con Croce, in Togliatti come si evince dai suoi scritti giovanili, è soprattutto con Gentile”.

Rileva in proposito Biagio De Giovanni che “Togliatti vede in Gentile soprattutto, il protagonista di un rinnovamento che tende a cambiare di segno la presenza politica della intellighenzia italiana nella storia nazionale, attraverso il richiamo dell’impegno dell’intellettuale per la creazione dello Stato”. 

Comunque sia, in realtà, anche gli storici marxisti sono contrarti ai valori risorgimentali, ritenendoli infarciti di ideali liberali e liberisti. 

Infatti, la storiografia marxista che esamina la realtà umana in una visione essenzialmente socio – economica, ritiene che lo Stato Nazione nato a seguito del 1860, sia essenzialmente un prodotto del Capitalismo, dunque creato artificiosamente per permettere ai capitalisti italiani in genere (intesi come tutti coloro che sono proprietari dei “mezzi di produzione”) e settentrionali in particolare, di sfruttare per i propri fini esclusivamente economici i proletari italiani, in gran numero costituiti da Meridionali. 

In merito al rapporto fra l’idea di nazione e l’idea politica marxista, ecco cosa scrive Gramsci nelle sue “Note su Macchiavelli”: “Il rapporto nazionale è il risultato di una combinazione originale unica (in un certo senso) che deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo – precisa Gramsci – lo sviluppo (della rivoluzione bolscevica n.d.r.), è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è nazionale, ed è da questo punto di partenza che occorre prendere le mosse”, poiché secondo l’autore “…una classe °(dirigente n.d.r.) di carattere nazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali… deve nazionalizzarsi”. 

Dunque, in Gramsci emerge l’esigenza di conciliare l’internazionalismo cl dato “nazionale”, seppure per fini strumentali, poiché lo storico marxista precisa che l’internazionalismo non può prescindere dal dato nazionale.

In Gramsci, l’interesse per il dato “nazionale” non è episodico, ma presente in tutti i suoi scritti.

Nel parlare della nazione italiana, confrontandola con le altre ed in particolar modo con la Francia, Gramsci considera l’Italia una nazione giovane nata solo a seguito dell’unità politica del paese ” in cui nel passato occorre ricercare col lanternino il sentimento nazionale”, considerata anche l’eterna divisione del nostro paese in fazioni nelal storia come nel caso del Barbarossa e dei Comuni. Infatti, a suo avviso, “nella storia” fino al “secolo XIX non ci poteva essere unità nazionale, mancando l’elemento permanente, il popolo – nazione”.

Gramsci, interpretando la visione storica di Macchiavelli in un’ottica meramente socio – economica, giudica positivamente la monarchia assoluta, prima forma di Stato moderno che tutelava il popolo dai poteri forti, ritenendo negativa l’opera della borghesia centrosettentrionale che, aggrappata ai Comuni, aveva impedito agli Svevi di costituire con sei secoli d’anticipo uno Stato unitario italiano: “Questa corrente di studi è molto interessante per comprendere le funzione storica dei Comuni e della prima borghesia italiana che fu disgregatrice dell’unità esistente, senza sapere o potere sostituire una nuova propria unità….”. In merito, spiega Gramsci “la borghesia si sviluppò meglio in questo periodo con gli Stati assoluti, cioè con un potere indiretto che non avendo tutto il potere”.

Quindi, Gramsci, precursore di tutti gli intellettuali marxisti italiani che hanno trattato la tematica risorgimentale,se da una parte avvalora la tesi ufficiale, secondo la quale l’Italia è nata come nazione solo nel 1860, dall’altra avvalora la tesi del Galasso dell’Italia nazione a “dimensione multinazionale”. Infatti, Gramsci, contestando la tesi storica patriottica ufficiale, come molti altri intellettuali di sinistra, si è posto il problema del Risorgimento definendolo una “Rivoluzione Incompiuta”, in quanto avventua contro la Chiesa ed il Meridione”. 

In questo modo, ha avvalorato la tesi degli storici nazionalpopolari di destra, revisionisti sul Risorgimento, secondo i quali, questo fenomeno storico – politico è stato indotto dall’estero, essendo un derivato della Rivoluzione Francese e delle Repubbliche giacobine. 

Tutto ciò, secondo l’intellettuale sardo fondatore del Partito Comunista d’Italia, è riscontrabile dal modo in cui è avvenuta l’Unità d’Italia, cioè tramite “conquista regia” sabauda che poi diverrà “monarchia unica ed indivisibile”. 

Gramsci è anche d’accordo con gli storici nazionalpopolari di destra che l’idea di Patria creata dal Risorgimento, era qualcosa sentito esclusivamente da una minoranza di “intellettuali”.

Infatti, a suo avviso, in Italia il “Partito d’Azione” non riuscì a vincere perché a differenza del Partito Giacobino francesce, non riuscì a diventare il “partito rivoluzionario di classe” della borghesia come in “Francia”. 

Pertanto, secondo le idee di Gramsci in Italia, bisognava parlare in epoca preunitaria di “sentimento nazionale, non popolare – nazionale…”, poiché “…la Chiesa era l’elemento popolare – nazionale più valido, ma la lotta tra Chiesa e Stato ne faceva un elemento di disgregazione più che di unità e – secondo l’ideologo del Comunismo italiano – oggi  (anni ’20 del XX secolo n.d.r.) le cose non sono molto cambiate”.

Tra l’altro si può evincere dagli scritti di Gramsci un “malcelato rimpianto, poiché l’Italia non ha una forte tradizione nazionale, soffocata fin dal Medioevo da quella cosmopolita propria della Chiesa e della letteratura con la constatazione apparentemente realista che in tali condizioni è impossibile ogni discorso nazionalista. 

Ecco spiegato il motivo per cui, secondo Gramsci, grandi italiani del passato, si affermarono solo mettendosi al servizio di stranieri come per esempio il Mazzarino, il Farnese, il Colombo, il Vespucci e il Caboto. 

Gli Italiani, secondo lo storico comunista sardo, fino al XIX secolo, mancarono del tutto di identità nazionale, a tal punto che “persino gli ebrei hanno avuto un maggiore carattere nazionale…nel senso che nel loro operare c’era una preoccupazione di carattere nazionale che in questi italiani non c’era”. 

E’ da rimarcare, tra l’altro, che Gramsci, come molti storici nazionalpopolari revisionisti di “destra2, sottolineaò il carattere unificante ai fini nazionali della “grande guerra”, le guerre d’Africa, la presa del potere da parte della “Sinistra Storica” e persino le elezioni del 1919 che videro l’ingresso in Parlamento dei due primi grandi Partiti di massa, il socialista e il cattolico, ma a tal fine ritiene ugualmente importanti i cosiddetti “plebisciti” prefabbricati per la formazione del Regno d’Italia tra il 1859 e il 1870, demonizzati invece dagli storici antirisorgimentali nazionalpopolari di destra e neoborbonici. 

A tal proposito, ecco cosa ha scritto Gramsci: “La guerra era stata un elemento unificatore di primo ordine in quanto aveva dato la coscienza alle grandi masse dell’importanza che ha anche per il destino di ogni singolo individuo la costruzione dell’apparato governativo, oltre all’aver posto una serie di problemi concreti, generali e particolari che riflettevano l’unità popolare – nazionale”. 

Comunque, è doveroso sottolineare che, avvalorando la tesi dell’ “Italia nazione eterogenea”, gli storici marxisti non mettono in discussione la tesi dell’ “Italia Invertebrata”, permettendo di aumentare la credibilità della definizione della nazione italiana coniata da Gabriele Fergola.

Addirittura, a mio avviso, il metodo di analisi schematico e semplice degli storici marxisti è più efficace di quello utilizzato dalla storiografia nazionalpopolare di destra, per poter sviluppare la teoria “fergoliana” sull’origine della Nazione Italiana e della “Questione Meridionale” in particolare. 

A testimonianza della bontà e della facilità dell’analisi della situazione storica generale, tramite il metodo marxista, in relazione alla storia del Risorgimento, basta cista due autori di sinistra che hanno scritto, secondo me, ottime opere revisioniste, contraddicendo la versione ufficiale del Risorgimento: Capecelatro, autore dell’opera “Contro la Questione Meridionale, Savelli, Roma 1975 e Nicola Zitara che esaminano la Questione Meridionale e il Risorgimento attraverso parametri oggettivi, riuscendo ad addossare le colpe della rovina del Sud Italia, quindi della nascita della “Questione Meridionale” alla politica postunitaria dei Savoia, senza cadere nella “partigianeria”, come avviene di sovente agli storici “neoborbonici”. 

N.B.: La foto è la copertina del Libro di Gabriele Fergola che ha scritto il libro “Italia Invertebrata”

Cristiano Vignali – Agenzia Stampa Italia

[Fonte: agenziastampaitalia.it]

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