Percorso:

www.dols.net – Isabella Rauti, di Marta Ajò

Intervista alla Consigliera Nazionale di Parità, per scoprire un mondo che viene incontro alle donne.


“Occorre che le donne si uniscano tutte in questo momento, prefiggendosi la conquista progressiva e ordinata dell’uguaglianza morale, giuridica e politica della donna a parità degli uomini, promovendo al contempo tutte quelle leggi a favore della donna, dell’infanzia e del lavoro che sono elemento di grandezza e di civiltà nazionale”.
Questo è quanto scriveva Laura Casertelli sull’Almanacco della donna italiana nel 1920.

In fondo non le sembra che sia possibile ritrovarcisi anche oggi, nel 2006?
Assolutamente sì, perché io ho sempre creduto e continuo a credere che soltanto un’alleanza trasversale, una rete di donne che a me non piace chiamare lobby ma il concetto della pressione potrebbe essere lo stesso, possa veramente raggiungere un obiettivo di parità sostanziale. Aggiungo anche che sarebbe bello vedere nascere una classe dirigente femminile politica, che manca in questo Paese, perché i meccanismi della politica tendono ad estromettere le donne. Questo anche se alle donne non mancano le qualità; voglio anche aggiungere che questa frase profetica e così densa del 1920, ci deve però far riflettere su una cosa: dal 1920 in poi sono state fatte, in particolare dagli anni 80, molte leggi in materia di parità e di pari opportunità e quindi l’uguaglianza giuridica che l’autrice cita è stata formalmente raggiunta, mentre, sulle altre uguaglianze direi invece che lo scarto purtroppo ancora resta.

L’8 marzo 1972, in occasione della Giornata internazionale della donna, lo slogan fu: non c’è rivoluzione senza liberazione della donna, non c’è liberazione della donna senza rivoluzione. Lasciamo stare la liberazione e la rivoluzione, ma uno slogan anche oggi, 2006, potremmo coniarlo, per esempio: non c’è democrazia senza un’effettiva parità di rappresentanza delle donne, senza uguali salari, senza condivisione di ruoli, senza opportunità di lavoro… ma forse chiedo troppo?
Anzitutto ricordo una frase del Manifesto futurista che affermava che nessuna rivoluzione può essere fatta senza una donna, ma forse questa è un’altra storia. Venendo alla domanda, la democrazia, per essere funzionale, non può consentire forme di asimmetria. Attualmente noi abbiamo una sottorappresentanza femminile a fronte tra l’altro di una popolazione femminile superiore al 50 %; quindi, in realtà, abbiamo una democrazia che io definirei bloccata o dimezzata, comunque imperfetta. Ci troviamo nel pieno di un deficit di democrazia… non posso non osservare che la percentuale femminile nelle istituzioni, ancor peggio se andiamo a vedere in luoghi diciamo apicali e le posizioni di vertice nei luoghi della decisione è bassa. Inoltre, se la rappresentanza femminile è arrivata soltanto adesso al 16%, con l’ultima tornata elettorale, e prima per anni è stata intorno al 10%, in Italia siamo ancora lontani da quel 30% fissato come soglia minima dall’ONU per una partecipazione condivisa ai sistemi democratici e lontanissima da quel 50% che invece è la percentuale della democrazia paritaria.

Dalla fase del movimento femminil-femminista degli anni 70 e della riflessione degli anni 80 si è passati ad una fase più complessa e concreta che è quella delle riforme specialmente sul piano legislativo degli anni 90.
Questa fase è la meno appariscente ma sicuramente quella che più ha fatto avanzare la donna nel contesto sociale e politico.

Gli anni 70, che noi ci sforziamo di storicizzare benché non troppo lontani, hanno segnato un’evidente rivoluzione femminile per taluni non totalmente compiuta per altri si, comunque una rivoluzione culturale di costume senz’altro. Gli anni 80 in Italia anche per riflesso delle indicazioni provenienti dalla comunità europea, hanno portato le prime leggi in materia di parità e di pari opportunità. Gli anni 90 sono stati appunto gli anni delle riforme ma questo tema delle riforme io non lo considero esaurito. Vorrei però porre l’accento non solo su un riformismo ancora necessario, ma sulle leggi non implementate; perché noi non abbiamo un problema di carenza di norme di parità e di pari opportunità ma abbiamo un problema di implementazione di tali norme; di monitoraggio dell’implementazione di tali norme e aggiungo che, al di là delle norme e talvolta anche in barba alle norme stesse, quello che si riscontra, almeno per chi si occupa di questi temi, uno scarto tra una parità formale, normativa descrittiva ed una parità sostanziale che definirei una parità sociale. Questo è lo scarto che noi dobbiamo cercare di ridurre; naturalmente per ridurlo non bastano le norme perché le norme da sole non sono mai sufficienti, sono la classica condizione necessaria ma non sufficiente. Occorre, una rivoluzione culturale, di mentalità e di costume che mi pare invece stenti a compiersi, questa si, in Italia.

1948 – La Costituzione della Repubblica Italiana sancisce i principi di parità e d’uguaglianza:
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Tutela delle lavoratrici madri, divorzio, consultori familiari, servizi sociali, diritto di famiglia, aborto, reati contro la persona tramite violenza sessuale, legge 903 di parità (direttiva europea), divieto di discriminazione fondata sul sesso…
Le sembra giusto che si debba ancora tornare su queste questioni? Scusi il paragone irriverente ma non sarà come per le autostrade che nascono a due corsie, poi bisogna rifarle a quattro perché abbiamo fatto male i conti e poi ci accorgiamo ancora che sono insufficienti? Perché le leggi si fanno con il contagocce anziché prendere “il toro per le corna una volta per tutte?

Penso che si debba tornare su tutte le questioni che ancora non vivono un concetto di parità sostanziale, una parità quindi effettiva e non esclusivamente normativa e direi descrittiva. Penso che ci siano anche questioni irrisolte; mi riferisco in particolare alla condizione delle donne nel mondo del lavoro. Qui di leggi ce ne sono state tante, anche più di recente e non solo negli anni 70 e 80, però se poi andiamo a vedere i dati e le statistiche, non solo dobbiamo rilevare un’occupazione femminile che ruota intorno al 45.6 % e quindi al di sotto della media europea ma soprattutto le condizioni precarie delle donne nel mondo del lavoro. Allora per rispondere alla domanda, molte sono le conquiste fatte anche grazie ad interventi legislativi, in materia di parità, ma la strada da percorrere, perché ci sono una serie di leggi (è stata fatta una ricerca in questo senso) che contenevano buonissimi principi ma che non sono mai state   finanziate in modo adeguato è ancora lunga. Allora queste sono forme di ipocrisia politica e noi dobbiamo cercare di evitare che si scivoli nella retorica della parità senza puntare poi invece ad una parità appunto di sostanza.

Le giovani donne danno per assodato e normale ciò di cui oggi possono avvalersi senza avere conoscenza di quanta fatica è costato e quanto è difficile mantenerlo.
Il pericolo, in questa società mediatica, di un ritorno al vecchio cliché di donna oggetto-subordinata-inferiore è sempre dietro l’angolo.
Cultura, religione, interessi economici, forse, non attenderebbero altro…non dovremmo fare una campagna di sensibilizzazione? Lei insegna storia delle istituzioni politiche all’Università, come spiega questo deficit di rappresentanza ai suoi studenti?

Le giovani generazioni sono tendenzialmente immemori però non ne farei una colpa dei giovani e tanto meno delle giovani donne. Penso che ci sia un problema forse della mia generazione o della generazione che ha preceduto la mia, di non saper sempre tramandare quel senso anche storico politico che ha caratterizzato il nostro impegno. Credo anche che non aiuti assolutamente questa civiltà delle immagini in cui sicuramente soprattutto il corpo femminile è veicolato secondo stereotipi assolutamente sbagliati che noi credevano superati. E’ un problema di civiltà dell’immagine o di inciviltà dell’immagine ed un problema anche di trasmissione di valori tra una generazione e l’altra. Insomma io credo che noi dovremmo dire a tutti i giovani di non dare mai per scontato ciò che ci sembra garantito, neanche se si tratta di diritti.

Ho interrogato parecchie donne. Lo sa che molte non sanno neanche chi è e cosa fa il Consigliere di Parità?
Sono 20 anni che è stato istituito… Non pensa che non sia stata fatta una campagna di comunicazione sufficiente a spiegare il suo ruolo.
Mi permetto di osservare… forse è rimasto un ruolo troppo chiuso fra addetti… nel senso che tutti dovrebbero sapere che esiste, non solo le lavoratrici discriminate. Scusi la banalità della domanda.

Non mi stupisce affatto che molti non conoscano la figura delle consigliere di parità provinciali e regionali sparsi sul territorio italiano e la figura della Consigliera nazionale perché operando e girando è il riscontro immediato che ho. Direi che rispetto a tutti gli organismi di parità c’è una sorta di velo che li circonda e li relega un po’ ai margini; questo è il rischio di queste strutture. E’ come aver detto alle donne occupatevi di questo così non vi occupate di altro dopo averle relegate in contesti quasi di nicchia. Questo però non significa che gli organismi di parità abbiano esaurito il loro compito e non significa neanche che le consigliere che sul territorio sono molto attive non siano andate oltre i loro compiti istituzionali sempre con passione ed impegno. Penso che questo attenga più che altro ai temi di parità, che sono residuali, come dimostra l’ultima statistica del World Economic Forum che ci situa come paese al 67° posto. Questo vorrà pur dire qualcosa.

Si sa che uno degli ostacoli principali per il lavoro delle donne è costituito dalla maternità, oltre che dai servizi che la donna eroga all’interno della famiglia.
Questo è sempre stato un cavallo di battaglia delle rivendicazioni delle donne, non solo negli anni 70-80, che si sono battute su questo punto.
Certo non si può dire che niente sia successo ma se ancora oggi, come rilevano alcune ricerche (a cominciare dal rapporto Istat), è questo il nodo principale mi viene da chiederle:
la società è cresciuta, i servizi pubblici offerti dalle istituzioni pubbliche e privati sono aumentati, ma se il problema persiste vuol dire che non siamo alla presenza di una radicale e profonda inversione di tendenza nei costumi e soprattutto nelle “prassi di organizzazione quotidiana
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Non si può non essere d’accordo. La questione della conciliazione non è una questione vecchia ma purtroppo è nuovissima perché è ancora un nodo irrisolto. Però ci terrei a sottolineare che non è un nodo irrisolto della condizione femminile ma, a mio avviso, è il nodo irrisolto dell’intero mercato del lavoro.
Se non si scioglie la questione della partecipazione delle donne al mondo del lavoro nei suoi passaggi, non solo d’ingresso ma soprattutto, di permanenza e di reingresso noi non risolviamo molti dei problemi.
Ritengo che al di là dell’incremento dei servizi, che pur c’è stato ma non ancora in misura sufficiente, per rispondere ai bisogni e alla domanda delle donne che lavorano e per favorire i termini di una conciliazione o, come si dice “tra i tempi; credo che molto resti ancora da fare.
L’Istat che lei citava per esempio, ci avverte e continua ad avvertirci che il 70% del cosiddetto lavoro di cura, quindi crescita dei bambini ma anche assistenza della terza e quarta età, pesa ancora per il 70% sulle spalle delle donne.
Nel nostro ufficio continuano ancora ad arrivare segnalazioni, spesso anche denunce per licenziamenti o discriminazioni per maternità; quest’ultima nonostante tutto non è ancora assorbita dal mercato del lavoro o resta un ostacolo tanto all’ingresso quanto alla permanenza. Soprattutto è stata svuotata della sua valenza sociale e gettata come faccenda indubbiamente privata sulle spalle delle famiglie.

Part-time, differenti retribuzioni, molestie sessuali nei luoghi di lavoro sono alcuni fra i molti temi che riguardano le lavoratrici. Qualcosa sta cambiando?
Sta cambiando molto almeno in termine di prospettiva soprattutto perché la Comunità Europea continua, non solo con i programmi di azione ma anche con le direttive, a denunciare questi fenomeni e a dare delle indicazioni che gli stati membri devono recepire ed applicare. In questo momento noi siamo in attesa adesso di recepire una direttiva molto importante sulle discriminazioni che risale al luglio scorso. C’è però sempre uno scarto tra quello che l’Europa indica come un punto di riferimento o obiettivi da raggiungere e la prassi quotidiana per rispondere. Quello che cambia è forse che le donne oggi hanno maggiore consapevolezza di alcuni diritti e sono più disposte magari alla denuncia.

La maggior parte degli uomini non sa cosa sono i congedi familiari, molti condividono il ruolo di genitore solo per le attività ludiche… cosa si può fare per sensibilizzarli? Forse le donne sono le prime ad accettare di farne a meno…
La legge 53 del 2000 sui congedi parentali rientra in una filosofia europea che è stata recepita anche in Italia e che sicuramente segna un punto di snodo. Il problema è il ricorso a questa legge perché sicuramente sono pochi i padri che la utilizzano. I motivi sono vari: perché se la utilizzano sono magari derisi in ufficio o comunque rischiano di essere dimanzionati ma soprattutto direi che, stando alle statistiche, generalmente l’uomo guadagna di più della donna e quindi è evidente che chi resta casa e usufruisce della legge 53 è più la donna che l’uomo, per una considerazione economica. Ma la di là del dato strettamente legislativo direi che dobbiamo anche operare un’operazione culturale e di costume; non si tratta di fare il “mammo, non si tratta neanche di occuparsi solo dell’aspetto ludico e relazionale ma si tratta, secondo me, di introdurre il principio della condivisione dei ruoli all’interno della famiglia, che è cosa diversa dalla conciliazione seppur l’accompagnerebbe. E’ un’idea di condivisione dei ruoli all’interno della famiglia, che non significa né snaturare l’identità di genere né l’idea della coesione della famiglia, significa semplicemente confrontarsi con la modernità.

In una cultura sostanzialmente ancora discriminatoria, come può intervenire la Consigliera di parità?
Esiste ancora purtroppo, come dice anche lei, una cultura discriminatoria. In pratica discriminazioni basate sul genere e questo non perché le leggi non aboliscano quelli che noi consideriamo come consigliere dei reati, in realtà non si è ancora compiuta una rivoluzione o modificazione perché di mentalità culturale. Come Consigliere di parità abbiamo proprio il compito preciso, al di là delle attività di promozione, diffusione e monitoraggio sull’attuazione dei principi di parità e di pari opportunità, che rende questo ruolo istituzionale importante ma anche delicato, di seguire le discriminazioni basate sul genere e nell’ambito lavorativo. In virtù dei poteri che la legge ci da, noi siamo anche pubblici ufficiali, possiamo adire le azioni in giudizio per i casi di conclamata discriminazione basata sul genere.

Vuole dirci come e a chi una lavoratrice/tore che si trovasse in situazioni di difficoltà o discriminazione nei luoghi di lavoro può rivolgersi?
Credo che sia utile informare tutte e tutti che presso gli Enti Locali, le Province e Regioni ci sono gli uffici previsti dalla legge delle Consigliere di parità cui le lavoratrici e i lavoratori discriminati possono rivolgersi.
Gli uffici della Consigliera Nazionale di Parità sono presso il Ministero del lavoro e della Previdenza Sociale, in via Flavia 6, tel. 06.46832562/fax 06 46832965
e.mail: consiglieranazionaleparità@welfare.gov.it
www.welfare.gov.it
www.consiglieranazionaleparita.it

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