Percorso:

Mozione – Atto di Sindacato Ispettivo n° 1-00352 – Sistemi fiscali

Atto n. 1-00352

Pubblicato il 5 maggio 2021, nella seduta n. 323

URSO , CIRIANI , FAZZOLARI , BALBONI , BARBARO , CALANDRINI , DE BERTOLDI , DE CARLO , DRAGO , GARNERO SANTANCHE’ , IANNONE , LA PIETRA , LA RUSSA , MAFFONI , NASTRI , PETRENGA , RAUTI , RUSPANDINI , TOTARO , ZAFFINI

Il Senato,

premesso che:

ormai tutti si rendono conto, dentro e fuori dell’Unione europea, persino nelle democrazie più orientate al libero mercato, quale conseguenza dell’emergenza sanitaria, sociale ed economica derivante dalla pandemia da COVID-19, come sia diventato prioritario definire nuove regole alla globalizzazione, a salvaguardia dei sistemi sociali economici e produttivi e, quindi, dell’identità di ogni nazione;

diversi gruppi multinazionali sono soliti adottare sofisticate tecniche di elusione o pianificazione fiscale, operando quella che si definisce un'”ottimizzazione fiscale”, approfittando della mancanza di regole condivise tra i sistemi fiscali nazionali;

al contempo numerosi Paesi, anche all’interno dell’Unione europea, usano proprio la leva fiscale per farsi concorrenza nell'”attirare” capitali, offrendo condizioni vantaggiose con l’obiettivo di convincere le aziende a spostare la loro sede legale sul proprio territorio, attuando quel che si chiama “dumping fiscale”;

il fenomeno è talmente diffuso che nella principale economia mondiale, gli Stati Uniti, ormai, oltre il 43 per cento dei profitti aziendali americani viene “parcheggiato” principalmente in 5 Paesi: Olanda, Lussemburgo, Svizzera, Irlanda e isole Bermuda, cui seguono altri noti “paradisi fiscali”; destino, questo, comune a tutte le economie avanzate, Italia compresa;

è fondamentale che vengano rispettati i principi della libera concorrenza e di un’equa tassazione e al contempo non è più tollerabile consentire che siano accumulati immensi patrimoni senza contribuire alla prosperità dei Paesi in cui sono stati realizzati, fenomeno che crea ulteriori e più ampi divari, tra ricchi e poveri, grandi e piccole imprese, all’interno delle singole nazioni e tra gli Stati della stessa Unione europea;

considerato che:

fino ad oggi l’attenzione, da parte degli Stati dell’Unione europea, si è concentrata principalmente su interventi in materia di imposte sui servizi digitali nei confronti dei cosiddetti OTT (over the top), le multinazionali del web, che per risparmiare sulle imposte spostano il fatturato delle controllate nazionali in Paesi dove le aliquote fiscali sono più basse, continuando a trovare maggiore convenienza nel pagare centinaia di milioni in transazioni anziché fatturare nel Paese in cui avviene il giro d’affari;

anche l’Italia con la legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio per il 2019), prima e, successivamente, con la legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio per il 2020), ha definito il perimetro normativo della “digital tax”, applicata, nella misura del 3 per cento, sui ricavi derivanti dalla fornitura di servizi digitali nel condivisibile scopo di assoggettare ad un minimo dovuto prelievo fiscale i grandi operatori internet;

questa tassa, prevista anche dalla Francia, ha innescato un aspro scontro tra UE e USA, che aveva portato la precedente amministrazione statunitense addirittura a minacciare dazi sull’importazione di merci europee senza un accordo condiviso in sede OCSE;

per questa e altre ragioni l’imposta, che dovrebbe portare alla finanza pubblica italiana un gettito stimato di circa 600 milioni di euro annui, ha subito modifiche e rinvii, con la prima scadenza, relativa agli imponibili realizzati nell’anno 2020, rimandata al 16 maggio 2021, prevedendo inoltre, al pari di quanto fatto in Francia, un sistema di sospensione dell’applicazione delle norme e di compensazione degli importi al momento del raggiungimento di un accordo internazionale in materia;

l’Unione europea sta discutendo in merito al modello di mercato creatosi nel settore digitale e riflettendo sui temi della concorrenza e della tassazione delle big tech, con l’obiettivo di revisionare anche il regolamento antitrust europeo oltre a quello di garantire che vengano rispettati i principi della libera concorrenza e di un’equa tassazione;

la pandemia da COVID-19 e l’adozione di provvedimenti restrittivi come il lockdown hanno ulteriormente aumentato il divario tra i fatturati delle attività commerciali nazionali, ed in particolare quelle di vicinato, costrette in molti casi alla chiusura, e lo straordinario aumento del volume di affari dei colossi del web che continuano ad incrementare i propri profitti senza neanche corrispondere degli sconti alla clientela, beneficiando di una situazione in cui si registra un maggior ricorso agli acquisti on line e dell’utilizzo di servizi internet, situazione che inevitabilmente pone il problema della concorrenza e della tassazione;

Amazon, ad esempio, nel terzo trimestre 2020 ha triplicato i propri profitti che sono cresciuti del 197 per cento a 6,3 miliardi di dollari, con un aumento delle vendite del 37 per cento superando i 96 miliardi di dollari (i dati riguardano il periodo luglio e settembre e non tengono peraltro conto degli incassi dell'”Amazon prime day” che si è svolto tra il 13 e il 14 ottobre 2020); il gruppo Alphabet, che possiede Google, ha diffuso una trimestrale con un incremento dei ricavi pubblicitari da 33 a 37 miliardi di dollari oltre incassi in crescita per la controllata You Tube (da 3,8 a 5 miliardi) e per i servizi di Google Cloud (da 2,4 a 3,4 miliardi) grazie alla domanda di servizi digitali in aumento per la pandemia;

considerato, dunque, che:

è necessario porre finalmente regole chiare e condivise alla globalizzazione a salvaguardia dei sistemi sociali economici e produttivi e, quindi, dell’identità di ogni nazione, tanto più all’interno del sistema occidentale che, per la sua natura democratica, vede minacciati i principi fondanti della sua civiltà, basata sui diritti della persona e sulle sue libertà fondamentali;

già nel vertice G20 del novembre 2018 a Buenos Aires, in Argentina, Paese allora presidente di turno del foro internazionale, la precedente amministrazione americana aveva posto con forza la necessità di rivedere le norme del WTO al fine di garantire che il commercio globale fosse anche equo e non solo libero, insistendo proprio perché la dichiarazione finale contenesse la formula considerata inedita di “commercio equo e libero”, al fine di evitare appunto che la “globalizzazione selvaggia” creasse scompensi sociali e produttivi all’interno degli Stati, con evidenti fenomeni di discriminazione;

vi sono finalmente le condizioni per realizzare un sistema di regole condivise ed eque che tutelino i valori delle democrazie occidentali dallo strapotere della finanza segnando la fine dei “paradisi fiscali”, non solo per i colossi del web ma per tutte le multinazionali, non essendo più tollerabile che proprio coloro che realizzano i maggiori guadagni non contribuiscano adeguatamente alla prosperità dei Paesi in cui questi vengono realizzati;

la corsa al ribasso nella tassazione tra i diversi governi, così come la concorrenza sleale a livello globale determinata dalla mancata conclusione del round negoziale attivato proprio nel 2001 a Doha, quando la Cina fu ammessa al WTO, ha danneggiato tutti creando tensioni persino tra gli Stati dell’Unione europea e tra la UE e i suoi tradizionali alleati;

appare condivisibile il piano proposto dal presidente degli Stati Uniti di stringere un accordo tra gli Stati affinché venga adottata una tassa minima su profitti fuori dai confini, una “global minimum tax”, con un’aliquota unica del 21 per cento, così come pienamente legittime sono le richieste avanzate sempre dagli Stati Uniti nel G20 del 2018 che nel round di Doha si tenga assolutamente conto della necessità di affermare il concetto di equità nel disciplinare le regole del libero mercato tra gli Stati, fattore peraltro in sintonia con le tradizionali richieste europee di inserire standard sociali e ambientali nelle regole del commercio mondiale;

il meccanismo della “global minimum tax” dovrebbe in concreto obbligare le multinazionali a pagare in patria ogni differenza nelle imposte rispetto alla minum tax, tale da affermare il principio di equità che è alla base di ogni concorrenza leale, scoraggiando, nel contempo, la pratica sempre più diffusa di spostare i profitti in Stati fiscalmente più vantaggiosi diversi da quello di appartenenza;

l’amministrazione statunitense ha inviato un documento esplicativo ai Paesi del G20 che, oltre agli Stati Uniti, comprende anche Cina, India, Brasile, Russia, Messico, Arabia saudita, Germania, Regno Unito, Francia e Italia, cui spetta la presidenza per tutto il 2021; il G20 è un interlocutore cruciale, esprimendo il 90 per cento dei profitti globali delle imprese, pari a circa 3.780 miliardi di dollari (dati 2018);

la stessa ha, altresì, proposto all’OCSE la global minimum tax come alternativa alla web tax, con regole che impongano anche piena trasparenza alle multinazionali costrette a dichiarare all’OCSE e alle singole agenzie fiscali nazionali dove e quanto fatturano all’estero;

secondo gli studi di Tommaso Faccio, docente di diritto tributario all’Università di Nottingham (Gran Bretagna) e segretario dell’ICRICT, Independent commission for the reform of international corporate taxation, che ha elaborato i dati OCSE su ogni singolo Paese, l’Italia applicando la global minimum tax su tutte le multinazionali tricolori pubbliche e private che versano imposte sui profitti all’estero (in Lussemburgo, Olanda o altri paradisi) recupererebbe tra gli 8 e i 10 miliardi di dollari all’anno, pur rinunciando ai 600 milioni previsti dalla web tax nazionale;

secondo fonti di stampa l’Italia, che ha la presidenza di turno del G20, con il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe condiviso la proposta della corporate minimum tax globale, così come altri Paesi europei,

impegna il Governo:

1) ad esprimere parere favorevole sulla proposta statunitense di riforma che prevede la global minimum tax su scala mondiale per porre fine ai “paradisi fiscali” e alle pratiche elusive che creano disparità di condizioni e, di fatto, concorrenza sleale;

2) ad intervenire, una volta introdotta la global minimum tax, per ridurre la tassazione nazionale gravante sulle imprese, in particolare riducendo l’aliquota IRES e fissandola non oltre il livello dell’aliquota prevista dalla tassa minima globale;

3) ad agire, in quanto presidente di turno del G20, affinché questa proposta, così come quella sul “commercio libero ed equo” avanzata al G20 di Buenos Aires del 2018, sia valutata e condivisa all’interno del foro internazionale che riunisce le principali economie del mondo, segnando così una svolta rispetto alla globalizzazione selvaggia, le cui gravi conseguenze sono emerse, in tutta evidenza, proprio a seguito della crisi globale determinata dalla pandemia;

4) a porre in essere ogni iniziativa di competenza presso le competenti sedi europee, affinché anche la UE si faccia parte attiva con riferimento alla specifica proposta e, più in generale, in ogni campo e in ogni sede, al fine di definire regole chiare e largamente condivise, per una governance della globalizzazione rispettosa dei diritti delle persone e dei popoli che sono a fondamento della stessa Unione europea.

[Fonte: www.senato.it]

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