Percorso:

Convegno "L'isola che non c'è"

L’isola che non c’è.
Pratiche di genere nella pubblica amministrazione tra carriere, conciliazione e nuove precarietà

Trento, 25-26 ottobre 2007

Paper di Isabella Rauti

Le donne: una maggioranza “marginalizzata”. La metafora della Pubblica Amministrazione.

Dalla considerazione e dalla lettura di ogni statistica e rilevazione di genere nell’ambito lavorativo, appare, necessario, “ripensare” l’organizzazione del lavoro, superando gli stereotipi ed individuando modalità più rispondenti ai reali bisogni di conciliazione delle lavoratrici e dei lavoratori, dei tempi di lavoro e dei tempi di vita. Modelli di organizzazione del lavoro più “gender friendly” e più flessibili anche nel rispetto e nella valorizzazione di un sistema di competenze e nella prospettiva di favorire e non ostacolare il reinserimento del personale (dopo maternità, congedi parentali, ecc.).

Il tema della conciliazione dei tempi, come irrisolta e vexata quaestio, resta centrale nel mercato del lavoro e non può essere considerato un “tema esclusivamente femminile” quanto piuttosto materia politica e di Governo nonché materia di scelte economiche e di riflessioni sui modelli di welfare state. Le questioni della conciliazione e dei modelli organizzativi del lavoro sono – insieme con le politiche dei servizi – questioni di fondo nell’elaborazione di nuovi modelli di welfare; un welfare di tipo sussidiario capace di rispondere a reali esigenze ed a nuovi bisogni.

Tutte le stime di settore evidenziano che resta irrisolto il nodo della conciliazione, da affrontare in termini di sistema e non di segmento, con l’integrazione di politiche attive, sociali, lavorative e del territorio e con l’intreccio di interventi sugli aspetti strutturali del sistema lavoro italiano e sui modelli di organizzazione lavorativa. Da un lato si deve puntare ad una maggiore condivisione dei compiti all’interno della famiglia e dall’altro su un sistema di conciliazione oggettiva ovvero su un diverso modello di organizzazione aziendale, su un’organizzazione più flessibile ma non penalizzante, sull’idea di una responsabilità assunta e condivisa che riguarda anche le scelte di maternità e di paternità, su un sistema dei servizi, su una politica dei tempi, su una politica degli orari e su una politica del territorio.

E’ statisticamente evidente, infatti, che sulla persistenza del fenomeno della segregazione verticale nella presenza delle donne nei ruoli dirigenziali e nei livelli più alti dei comparti lavorativi, continui ad incidere negativamente il carico familiare ed il lavoro di cura che restano concentrati – per oltre il 70% (dati Istat) – sulla componente femminile. E, infatti, anche se l’occupazione femminile italiana è cresciuta costantemente negli ultimi anni (si sta registrando, però, una contrazione dei livelli di incremento) , raggiungendo nel 2006 la percentuale del 46% (la più bassa, dopo Malta, nell’Unione Europea allargata e lontanissima dagli obiettivi di Lisbona del 60% per il 2010), il tasso occupazionale delle donne cala drasticamente man mano che aumentano i carichi familiari.

Inoltre, la crescita dell’occupazione femminile registrata nel 2006 è stata pari al + 2,5 ma tale dato ed aumento vanno letti, soprattutto, in termini di nuove e miste forme di lavoro e, come incremento di contratti part-time e di contratti a termine. Oltre alla presa d’atto di una crescita oggettiva e quantitativa della presenza femminile nel mercato del lavoro, è importante valutare anche gli aspetti qualitativi, le condizioni d’ingresso e di permanenza delle donne nel mercato del lavoro; nel consapevolezza – ad esempio – che sempre più spesso la modalità di ingresso, ossia un lavoro con un contratto a termine o forme di lavoro non stabile, rischiano di diventare un modo strutturale per le donne di stare e restare (e cercare di non essere espulse) nel mondo del lavoro. Questo, si ritiene essere un punto nevralgico e sul quale occorra riflettere in tutte le sedi di riferimento; accettare l’ingresso nel mondo del lavoro con forme atipiche quando non addirittura precarie, comunque a corto respiro e poco remunerate e, sempre più spesso per le donne con mansioni inferiori rispetto alla preparazione ed alla formazione curriculare conseguite e con compensi bassi, talvolta diventa l’unico modo di entrare o rientrare nel mercato del lavoro.

Esiste,inoltre, una zona grigia delle cosiddette inattive, tra cui una componente delle “scoraggiate” e tra queste molte sono madri ex lavoratrici; le statistiche di settore rivelano – ad esempio – che una madre lavoratrice su sei lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio, ma non si tratta di donne rinunciatarie, ma di lavoratrici che non riescono a conciliare e che sono costrette ad abbandonare il lavoro, e spesso lo rimpiangono. E non dimentichiamo, ancora, che persiste una forma costante e strisciante di sottoccupazione e “malaoccupazione”, e che insistono forme di segregazione professionale. Di fondo c’è una instabilità lavorativa, legata a forme non governate di flessibilità, che penalizzano – in particolare ma non solo – il ruolo della madre lavoratrice .

Le forme di lavoro non stabile, perduranti nel tempo, diventano forme sostanziali di segregazione professionale e lavorativa, sia verticale che orizzontale; come dimostrano, del resto gli scarti ricorrenti tra la partecipazione femminile al mondo del lavoro e la presenza femminile nelle posizioni apicali e di vertice e,in tutte le progressioni di carriera.

Esiste, insomma, una “nuova precarietà”, fatta di contratti a termine, di forme atipiche , a corto respiro e poco remunerate, con mansioni inferiori rispetto alla preparazione ed alla formazione curriculare conseguita, che spesso diventa l’unico modo di “esserci” nel mercato del lavoro.

Come è noto, negli ultimi anni, le amministrazioni pubbliche sono state oggetto di profondi cambiamenti, per effetto dell’innovazione tecnologica e della semplificazione delle procedure amministrative, ma anche per una modificazione delle strutture organizzative, dei modelli di organizzazione del lavoro, della gestione delle risorse umane e della valorizzazione del personale sia femminile che maschile, nonchè per effetto di una diffusione se non pervasiva almeno estesa delle buone prassi e delle azioni positive che hanno contribuito allo sviluppo di pari opportunità di carriera per tutti i lavoratori.

Insomma, modelli organizzativi diversi e più favorevoli alla conciliazione, sono possibili nella Pubblica Amministrazione come negli altri comparti lavorativi, anche perchè esiste la possibilità di una flessibilità governata e vissuta in modo più giusto e non penalizzante: scelte di part time che non diventino un boomerang per la carriera; congedi parentali che non diventino mobbing; rientro dalla maternità che non diventi demansionamento; ritorno al posto che si è lasciato temporaneamente con la possibilità di una formazione e di un aggiornamento continui.

Nell’anno in corso, “Anno europeo delle Pari Opportunità per tutti. Verso una società più giusta” – ed in linea con l’attenzione che, anche a livello europeo, si sta rivolgendo a questo argomento (cfr.anche la direttiva 2006/54/CE) – acquisisce particolare importanza l’applicazione della Direttiva contenente “misure per attuare pari opportunità nelle amministrazioni pubbliche”,del 23 maggio 2007 , emanata dai Ministeri “Per le Riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione” e “Per i Diritti e le Pari Opportunità”. Tra gli obiettivi della Direttiva, la verifica dello stato di

attuazione delle disposizioni vigenti, ma anche e soprattutto la volontà di sviluppare ed articolare politiche attive del lavoro e modelli organizzativi che favoriscano anche un aumento della presenza delle donne nelle posizioni apicali e di vertice. Le Pubbliche amministrazioni devono adottare modelli organizzativi del lavoro tesi a favorire la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro e devono garantire il rispetto delle pari opportunità sia nel reclutamento che nella gestione del personale, nonché nelle progressioni di carriera.

La Direttiva vuole applicarsi ad una realtà, come quella della Pubblica Amministrazione, caratterizzata da un capitale femminile qualificato (tra i dipendenti pubblici laureati e diplomati il 60% sono donne) e consistente, una risorsa che non riesce ad essere impegnata come si dovrebbe e che, inoltre, sconta forme di trattamento discriminatorie.

Inoltre, le pratiche di genere, applicate alla Pubblica Amministrazione sono paradigmatiche e particolarmente significative se si considera il concentrato eccezionale di presenza femminile in questo settore, cui – però – non corrispondono in misura simmetrica le posizioni apicali nelle progressioni di carriera. Quella femminile nella Pubblica Amministrazione, dunque, appare come una maggioranza “trattata” da minoranza e che resta marginale, esattamente come accade, in modo quasi speculare, per la maggioranza femminile del corpo elettorale (52%) che rimane minoritaria nelle rappresentanza di genere nelle Istituzioni.

Tra i molti obiettivi della Direttiva, allora, quello di realizzare politiche attive per il lavoro pubblico, coerenti con il quadro normativo sulle pari opportunità ed in grado di ridurre lo scarto esistente tra la parità formale/descrittiva e quella sostanziale ed effettiva. Infatti, anche nel comparto lavorativo della pubblica amministrazione permangono ostacoli al raggiungimento delle pari opportunità tra i due generi; e sono i dati a dimostrarlo: a fronte di una componente femminile del 53,7% del totale, quindi più della metà del personale lavorativo, le posizioni di vertice (1 donna su 4) ed apicali (1 donna su 6) sono nettamente inferiori, con una percentuale del 33% tra i dirigenti in seconda fascia e del 19% tra quelli in prima.

Le percentuali della presenza femminile sono diversamente distribuite nei settori della Pubblica amministrazione; in linea generale si rivela un’alta concentrazione (76,2%) nella scuola, seguita dal Servizio Sanitario Nazionale dove le donne sono il 61,1%. Mentre le donne rappresentano il 50% dei dipendenti negli Enti pubblici non economici, nella Presidenza del Consiglio dei Ministri e nei Ministeri, e scendono al 40% ed al 30% nelle Regioni, nelle Agenzie fiscali, nell’Università, negli Enti di ricerca, nella Magistratura.

Inoltre, si evidenzia che nella Pubblica amministrazione gli uomini hanno un maggior numero di incarichi (58,3%) rispetto alle donne ( 41,7%) ed allo svantaggio del conferimento di incarichi fa riscontro (con una forbice ancora più larga) una differenza di compensi. Anche sugli incarichi retribuiti aggiuntivi rispetto al lavoro ordinario, permangono differenze di trattamento e le donne risultano sfavorite sia nella attribuzione che nella remunerazione; agli uomini, infatti, è attribuito il 56% del totale degli incarichi a fronte del 47% attribuito alle donne.

La “dirigenza” delle donne si configura e si riassume anche nella Pubblica Amministrazione con la cosiddetta e metaforica struttura “ad imbuto”: prevalenza numerica nel personale non dirigente, ma posizione di vertice non proporzionate ed assenza ai livelli apicali. Ed anche se la quota di donne dirigenti è aumentata nel corso degli ultimi cinque anni resta comunque evidente che esistono e persistono ostacoli oggettivi alle possibilità di carriera e lo scarto assume maggiore valenza e significato se correliamo la massiccia presenza femminile nella Pubblica amministrazione con gli elevati titoli di studio conseguiti dalle donne e se ribadiamo che alle donne vengono conferiti meno incarichi degli uomini, e che le donne vengono pure meno retribuite.

Insomma, non mancano gender gap, e si riscontrano nei divari nelle progressioni di carriera e rispetto ai differenziali retributivi a parità di lavoro svolto (che non riguardano la busta paga base ma si annidano nelle forme del “salario accessorio”, in cui concorrono bonus, straordinari, premi di produzione, benefits, ecc.); ed è anche per questo che risulta necessario richiamare l’attenzione – come fa anche esplicitamente la Direttiva – sull’importanza strategica non solo delle statistiche sul personale ripartite per genere ma anche dei bilanci di genere. Intesi, come strumenti di trasparenza politica e di effettiva parità e come sistema per allocare risorse su servizi rispondenti alle diverse esigenze di donne e di uomini.

Si tratta, infatti, di valutare come le scelte politiche ed economiche – che non sono mai neutrali – ricadano in modo diverso sul genere maschile e sul genere femminile .Una contabilità economica, quindi, vista in un’ottica di genere e che contribuisce non solo a rafforzare l’equità tra i sessi ma soprattutto ad affermare il concetto di democratizzazione delle politiche. I bilanci di genere si presentano come strumenti di analisi ma, soprattutto introducono e favoriscono una rivoluzione della politica dal punto di vista di genere: valutare ricaduta ed efficacia con l’obbiettivo di includere chi è rimasto escluso da ragionamenti di politica economica. Equità, democratizzazione, inclusione sociale vanno così ad intercettare ed intrecciarsi con quel sano e diffuso bisogno di maggiore partecipazione alle decisioni economiche e con l’idea di cittadinanza partecipata ed attiva, nemica delle decisioni prese nei luoghi chiusi ed avulsi.

Infine, nella direzione della piena realizzazione delle pari opportunità nelle pubbliche amministrazioni, recitano un ruolo fondamentale i Comitati di Pari Opportunità (CPO) – che vanno potenziati – e l’obbligo per le Pubbliche amministrazioni di predisporre piani triennali di azioni positive che assicurino la rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione delle pari opportunità nel lavoro e promuovano l’equilibrio della rappresentanza di genere in tutti i livelli professionali ed una simmetrica presenza femminile nelle posizioni decisionali e di vertice di carriera.

Ma non è solo una questione di numeri e di necessario riequilibrio della rappresentanza femminile lì dove si registrano i deficit; le valutazioni sulla presenza quantitativa e sulle condizioni lavorative delle donne, comprendono e superano, declinandolo, ogni doveroso e necessario ragionamento sulle pari opportunità e si collocano sul piano della riflessione socio-economica che considera innanzitutto il nodo del mercato del lavoro femminile (in ogni comprato) non una “questione di donne” ma una questione di fondo dell’intero mondo del lavoro italiano e delle esigenze di competitività del Paese. In questa prospettiva – cui peraltro vanno le recenti riflessioni di insigni economisti – le donne non sono – appunto – un “capitale dormiente” ma una risorsa del e per il Paese ed aumentare la presenza delle donne nel mercato del lavoro significa creare un circolo virtuoso destinato ad aumentare il Prodotto Interno Lordo (Pil). Non si tratta qui, quindi, di semplici quanto basilari rivendicazioni di genere, ma di considerazioni che trasformano le concezioni di parità e di pari opportunità in riflessioni e buone prassi di mainstreaming e di empowerment e le calano, anche, nell’ambito delle necessità proprie dei meccanismi stessi del mercato del lavoro, nonché delle necessità sociali ed economiche di inclusione. Nessuno escluso.

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