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Area – Italia: bel paese ma non tanto

Non è per “citarsi addosso” –  a dirla alla Woody Allen –  ma della questione del progressivo impoverimento del ceto medio, Area se ne è occupata a più riprese ed anche in tempi lontani  oltre che più di recente. E continuiamo a farlo perché la tendenza è inequivocabile  e perché tale tendenza mina alla base, la coesione sociale del Paese, ma anche la sua tenuta, stabilità ed efficienza , e non solo quella economica.

Il processo generale di impoverimento del nostro Paese, che colpisce in particolare le  famiglie del ceto medio (considerata la punta dell’iceberg) e l’aumento percentuale della povertà assoluta e della cosiddetta povertà relativa, impongono di operare scelte di politiche sociali ed economiche  che restituiscano centralità e razionalità ai modelli di welfare.

Il processo di impoverimento del ceto medio si inquadra in un contesto più ampio che interessa l’intera comunità nazionale e che è legato anche al grosso debito pubblico; ed i più esposti ai rischi della povertà crescente  sono i giovani. Inoltre, aumenta il difetto nella distribuzione della ricchezza e “si inspessiscono” le sperequazioni sociali; il processo di concentrazione verso l’alto della ricchezza si accompagna – appunto –  con la estensione ed il progressivo   impoverimento sociale ed economico del ceto medio e delle classi meno abbienti.

Il ceto medio, tradizionale struttura portante del Paese; status sociale prima che economico, ereditato dai genitori o faticosamente costruito partendo dal basso ed ottenuto risalendo le dinamiche ascensive di una mobilità sociale che ora appare bloccata. Mentre è evidente l’aumento progressivo della distanza tra una  parte minoritaria di società benestante e la stragrande maggioranza che, invece, ha serie difficoltà a far quadrare i conti a fine mese; insomma, tendono ad impoverire le classi medio-basse, quella medio-alta si assottiglia, la distribuzione della ricchezza si concentra nelle fasce alte della gerarchia sociale, e non si può più parlare di ceto medio come categoria unica ma – secondo le indicazioni di Ferrarotti –  di “ceti: medio-basso; medio-medio, medio-alto”.

Solo qualche dato, per introdurre la questione:  il 50% delle famiglie italiane vive con meno di 1.900 euro al mese, per l’esattezza con meno di 1.872 euro; lo sostiene l’Istat, nelle indagini sui redditi e le condizioni di vita in Italia (2005-2006). Leggermente più alto sarebbe invece il reddito medio: 2.311 euro al mese, ma la maggioranza delle famiglie risulta avere un reddito inferiore a tale media.

Il quadro di “un’Italia sempre più povera” emerge, anche, dal Rapporto Eurispes del 2008, presentato a Roma il 25 gennaio scorso. Nel  20° Rapporto Italia dell’Eurispes, si legge che, ormai, sono circa 5 milioni le famiglie italiane (il 23% de totale), corrispondenti a 15 milioni di persone,  a vivere a rischio povertà e, solo il 13,6% del totale riesce a mettere qualcosa da parte a fine mese, ed è raddoppiata in un anno la percentuale dei nuclei familiari che chiedono un prestito.

Davanti all’aumento del costo della vita e di fronte alla progressiva perdita del potere d’acquisto dei salari e degli stipendi ( – 1.896 euro negli ultimi cinque anni, dal 2002 al 2007. Fonte Ires-CGIL) ed alla “sindrome della terza settimana”, vediamo crescere – si legge nel Rapporto Eurispes – “in maniera esponenziale il credito al consumo e l’indebitamento complessivo degli italiani nei confronti delle banche”.

Secondo l’Istituto di Ricerca, aumentano le famiglie dei cosiddetti “working poors”, composte da coloro che, pur lavorando, non riescono a garantirsi un reddito sufficiente. E’ nata da tempo, infatti, già intorno agli anni Ottanta, una nuova categoria, quella dei ” lavoratori poveri “,  persone occupate ma con un  tenore di vita molto vicino a quello di  disoccupati; alcuni li definiscono colpiti da una “povertà dei non poveri”, poveri “in giacca e cravatta”, la cui povertà è determinata da un equilibrio socio-economico precario ed altalenante. E si tratta, lo sappiamo, non di povertà di tipo tradizionale e classico (la fame!) ma di quelle forme postmoderne di nuove povertà, la cui dimensione non è esclusivamente quantitativa. E’ la povertà dei Paesi ricchi! E dovremmo anche entrare, ma non possiamo, nelle distinzioni tra povertà assoluta e povertà relativa, caratterizzate e differenziate dal grado di sviluppo economico e di ricchezza nazionale da un lato e, dalla distribuzione della ricchezza e dalle disuguaglianze sociali dall’altro.

Il Rapporto Eurispes avverte anche che in molti, per fare quadrare il bilancio familiare, fanno ricorso  al secondo lavoro, rigorosamente in nero. Si stima, infatti, un aumento del sommerso, non quello subito che pure è molto diffuso ma quello “scelto” per integrare un reddito non più sufficiente. Secondo le stime dell’Istituto di Ricerca,  l’economia sommersa ha generato nel 2007 almeno 549 miliardi di euro, una cifra equivalente alla somma del Pil di Finlandia, Portogallo, Romania e Ungheria. L’Eurispes stima 6 milioni di “doppiolavoristi” tra i dipendenti che producono annualmente circa 91 miliardi di euro di sommerso.

Vogliamo qui ricordare che già l’indagine annuale dell’Eurispes relativa al 2003, restituiva un inquietante quadro di povertà ed il Rapporto denunciava il rischio di passare da ceto medio a povero; anche l’Istat aveva stimato, nel 2002,  in 2 milioni e 456 mila le famiglie che si trovavano in situazione di povertà relativa, per un totale di 7 milioni e 140 mila persone ed indicato a rischio di impoverimento  un altro 10 per cento di famiglie italiane.

Ma, tornando ad oggi, anche il Rapporto presentato di recente dall’Istat conferma che un numero sempre maggiore di italiani  faticano “a tirare a campare e una fetta crescente si trova in grave difficoltà economiche già dalla terza settimana del mese”. Le famiglie sembrano restare schiacciate,  sotto il peso di troppe tasse, mutui altissimi, affitti insostenibili, salari inadeguati, pensioni basse,  lavori precari o perdita del lavoro.  “Il 50%  dei nuclei familiari vive con meno di 1872 euro, 22.460 euro l’anno, il 14,6 % dichiara di arrivare con molta difficoltà a fine mese e il 28,4 per cento di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 600 euro”.

Questo, il linea generale, il quadro nazionale disegnato dai maggiori Enti di ricerca, uno pubblico e l’altro privato; ed anche se qualche Regione  vive come isola felice e in controtendenza, il resto va nella o al di sotto della media del Paese; il caso del Lazio  ne è una prova, stando almeno ai risultati dell’indagine realizzata dal Cnr –  su committenza dell’Assessorato alla Tutela dei Consumatori della Regione Lazio – e presentata a Roma il 30 gennaio u.s. nel corso del Convegno  “Povertà e indebitamento delle famiglie”. Dalla Ricerca emerge che, rispetto al 2006, nell’anno successivo la povertà nel Lazio è triplicata, passando da un’incidenza del 7 per cento al 21,8. “Sono soggettivamente poveri, ancorché non lo siano oggettivamente, il 34,5 per cento dei cittadini laziali, ben uno su tre – si legge nell’Indagine – mentre uno su cinque (19,8 per cento) lo è sia oggettivamente che soggettivamente”.

La percezione di retrocessione sociale e smottamento economico vissute dal ceto medio in particolare e quella di declino sentita più in generale da Paese tutto, devono lasciare il passo a condizioni oggettive di ripresa indotta e di crescita spontanea, per ripartire davvero. E per contrastare il generale impoverimento non basta chiedere  soltanto  nuove garanzie e nuove tutele da parte delle politiche pubbliche o invocare interventi-tampone redistributivi e compensativi. C’è bisogno di interventi strutturali, di sistema e non di settore, per l’innovazione, lo sviluppo e la competitività nazionali ; c’è bisogno che il welfare sia tema di governo. Riconsiderando e ripensando i modelli di welfare , che siano inclusivi per le fasce vulnerabili ed a rischio ma  superando assistenzialismo e paternalismo; passando dal welfare dei diritti a quello delle responsabilità secondo un modello di welfare comunitario (nel senso di welfare community owelfare society), ispirato alla sussidiarietà ed alla coesione e basato su un’economia sociale di mercato.

Isabella Rauti

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