Percorso:

Secolo d’Italia – Donne dal Mediterraneo

Nelle cronache dei giorni scorsi si sono susseguite con insistenza, quasi si trattasse di una catena fatale ed  emulativa,   notizie di episodi di violenza, a sfondo discriminatorio e razziale, effetto di una convivenza spesso difficile con le comunità straniere presenti nel nostro Paese.
Qui non entreremo in nessuna di queste vicende, quanto – piuttosto – vorremmo provare a guardare, al fenomeno immigratorio  da un altro punto di vista; ossia, quello dell’integrazione voluta e riuscita e  lo  facciamo secondo uno specifico di genere: quello femminile. Una chiave di lettura, quella dell’aspetto di genere, poco adoperata e, invece, sicuramente utile per inquadrare e contestualizzare i processi migratori; e, per comprendere non solo la composizione quanti/qualitativa dei flussi ma anche le strategie migratorie. Nell’utilizzare la chiave di genere, ricorriamo anche ai primi risultati del  Rapporto “Donne del Mediterraneo. L’integrazione possibile”, curato dalla Fondazione FareFuturo  e che sarà presentato a Roma lunedì p.v.

E’ evidente che, negli ultimi decenni, l’immigrazione ha cambiato volto ed è diventata sempre di più anche immigrazione  femminile, tanto da spingere gli osservatori a parlare, tecnicamente, di “femminilizzazione” delle ondate migratorie. E non si tratta più, soltanto, di un’immigrazione fatta di ricongiungimenti familiari ma anche una forma automa e, non più temporanea ma tendenzialmente permanente e stabile. E tesa al radicamento.

Il Rapporto, analizza i flussi di emigrazione provenienti dai Paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, dalla Tunisia, dal Marocco, dall’Algeria, dalla Libia, dall’Egitto, dall’Etiopia, dall’Eritrea e dalla Somalia ma anche quelli  proveniente dai Paesi che affacciano sull’Est del Mediterraneo. Lo scenario prospettico dello Studio conoscitivo è  – e non poteva non essere – il Mar Mediterraneo, da sempre luogo di incontro; storicamente e simbolicamente “continente liquido” di confronto e  modello di convivenza pacifica e positiva.

Esiste nella storia, “un approccio mediterraneo” , perché l’area mediterranea, è stata – e continua ad esserlo – sempre percepita non come bacino geografico e mare circondato dai Paesi che vi si affacciano ma, come luogo culturale pluralista e fenomeno geopolitica. Con tale “approccio”, è stato superato il concetto/nozione di mare per passare ad un’ idea.  Un’idea che non vorremmo perdere, quella del Mediterraneo con la storica funzione di centro di emanazione della cultura della convivenza, della legalità e del rispetto reciproco. In una parola: espressione di civiltà.

Infatti, il Mediterraneo è lo scenario naturale e simbolico del confronto; è in questo “Piccolo mare, un lago fra i monti” per dirla con  Braudel, che si giocano i destini del mondo. Qui, il Nord incontra il Sud e l’Oriente incontra l’Occidente; qui si incontrano le tre grandi religioni monoteiste ed i principali flussi umani ed economici. E’ nel Mediterraneo, appunto, che si intrecciano le principale tensioni geopolitiche ma anche le principali soluzioni.

Ma torniamo allo Studio voluto da “Farefuturo”. Nel campione di intervistati – circa 600 persone e, si tratta di immigrati regolari, maschi e femmine – si considerano sia le donne immigrate con un livello di istruzione superiore e con un’occupazione lavorativa, sia  le “immigrate inattive”  che svolgono solo lavoro domestico e di cura all’interno del loro nucleo familiare. Non anticipiamo nessun dato percentuale dello Studio ma, riprenderne il “filo rosso” e quello che appare come il comune denominatore: una volontà generale di integrazione e, soprattutto, che le donne immigrate sono il vero motore dell’integrazione e che svolgono, nel delicato processo, un ruolo centrale. Inoltre, ed è un altro spunto importante e suggestivo della Ricerca, nelle opinioni messe a confronto tra uomo e donna immigrati e, in particolare, sui principi di parità e di pari opportunità, emergono discordanze di risposte che sottolineano come l’immigrazione maschile sia e resti fondamentalmente più conservatrice di quella femminile; e, come, tra la sfera privata e quella pubblica si vivano condizioni parallele  e dimensioni esistenziali diverse e, talvolta, inconciliabili.

Da sempre ma. oggi più di ieri, le motivazioni che spingono le donne ad emigrare sono differenti da quelle degli uomini e, molto diverse sono le ricadute di genere nonchè le possibilità offerte dalle migrazioni. Ed è stato considerato, inoltre,  che “attualmente i flussi migratori femminili rappresentano la metà del flusso migratorio globale” (Fonte: Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel mondo 2008, Edizioni Idos), insomma, un mondo che attraversa il mondo!

Nel perimetro dei contesti migratori, il ruolo delle donne è nevralgico per comprendere sia le prospettive che i limiti del processo; ed è l’elemento femminile immigrato. che si trova al centro del confronto tra identità (e trasmissione dell’identità alle future generazioni) ed integrazione, rispetto al proprio nucleo familiare e rispetto alla comunità d’appartenenza. Al centro del confronto e nella ricerca del confine – se c’è – tra identità ed integrazione; un confine sempre  variabile e dai livelli diversi a seconda che si tratti di identità individuale o collettiva e di gruppo.

Prendendo spunto dai primi risultati del Rapporto,  preme qui sottolineare un nodo sempre ricorrente: l’ integrazione e l’identità – appunto – collettiva, individuale ma anche di genere ed il rapporto con la modernità.

Un dialogo con la modernità che, soprattutto per le donne,  non  deve essere traumatico, nè confuso, nè caotico, e neppure invasivo ma, deve diventare il più possibile organico, organizzato e culturalmente sostenibile dai suoi interpreti. Il nodo è di fondo e, riguarda l’integrazione; e, questo tocca proprio le donne più da vicino. Aggiungerei anche che, ogni  fallimento sulla strada dell’integrazione ed ogni passo di “mancata integrazione” fa pagare alle donne  un prezzo più alto, in termini di costo esistenziale. Insomma, sono in particolare  le donne immigrate che hanno tutto da perdere nelle realtà di mancata integrazione o di integrazione difficile. Perché, l’integrazione – se articolata correttamente ed autenticamente – è anche realizzazione di parità e di pari opportunità. E, come scrive Fatema Mernissi, a proposito della condizione femminile nei Paesi di provenienza migratoria,  “le donne… gettate nel silenzio per secoli, hanno cominciato la loro marcia verso la libertà e non hanno nulla da perdere tranne che la segregazione, la reclusione e la paura”. “Le donne arabe” – sostiene, ancora, l’Autrice marocchina  – “non hanno paura della modernità”,  perché la modernità è una opportunità reale per costruire una alternativa a “quel silenzio” di secoli.

Le donne immigrate sono immerse nella modernità ed il loro  rapporto con la modernità non può essere rappresentato e risolto come lotta tra tradizione e modernità; tra una tradizione che rappresenta il “qui” ed una modernità che rappresenta l’ “adesso”. E se non si riesce a fare sintesi nuove, si crea lo strappo identitario, con  contraddizioni e schizofrenie.

Le sintesi nuove presuppongo un’ identità non statica (quindi non  immobile e fissa) ma un’ identità-relazione, cioè una identità individuale e collettiva che si radica anche in contesti diversi e che con i contesti diversi si mette in relazione. L’identità che si modifica nel tempo, che si muove e che è fluida, si rapporta con il presente ma si richiama e resta in continuità con la tradizione, intesa come insieme di valori e patrimonio condiviso. Un’identità che sappia declinare il suo retaggio verticale (storia, tradizioni, etc.) con quello  orizzontale offerto dalla  contemporaneità.

Rispetto “all’integrazione possibile”, le questioni di genere sono un nodo di fondo, anzi il nodo femminile fa proprio da spartiacque; diventa dirimente, sia nella condizione pubblica di donne immigrate e nel contesto che le accoglie, sia nel  nucleo familiare, nella comunità di appartenenza ed in tutte le forme del privato.

Isabella Rauti

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