Percorso:

Intervista per la tesi di laurea di Cristina Scarasciullo “Gender gap e quote rosa: una politica di un altro genere”

35. Isabella Rauti, senatrice

Secondo Lei sono necessarie più donne in politica?
C’è una premessa da fare: il gender gap non riguarda solo la politica, ma il mondo del lavoro (l’Italia è al penultimo posto nella media europea per presenza femminile nel mondo del lavoro), dell’economia in generale, riguarda gli incarichi dirigenziali e anche nei salari a parità di lavoro svolto c’è disparita di retribuzione. Per quanto riguarda la politica, penso che una maggiore presenza delle donne in politica sarebbe necessaria, poiché è uno di quegli elementi che garantisce l’efficacia dei sistemi democratici e soprattutto garantisce uno dei criteri della democrazia che è quello della rappresentanza. Infatti, quando nelle democrazie le donne non sono adeguatamente rappresentate si parla di deficit di democrazia o di democrazie asimmetriche, ovvero di democrazie deficitarie. Perché se il principio democratico è quello della rappresentanza, teoricamente la popolazione femminile, che peraltro è maggioritaria nel Paese perché è oltre il 52%, dovrebbe essere rappresentata dal 50% nella vita politica. Questo non è nei numeri, quindi evidentemente c’è un deficit di rappresentanza. Aggiungo anche che, generalmente, le donne sono portatrici di buon governo e di istanze molto concrete. Molto spesso, però, le donne che fanno politica sono notoriamente eroine funamboliche del quotidiano, in quanto riescono a unire più ruoli e più funzioni con grande sacrificio, come l’essere madre e professionista. Naturalmente, tutto questo richiede un impegno e un sacrificio senza tregua. Un sacrificio che non spetta solo alle donne della politica, ma a tutte le donne lavoratrici, con condizioni spesso e volentieri molto più gravose rispetto alle donne impegnate politicamente.

Le policies per favorire la partecipazione femminile esistono: pensa sia stato fatto abbastanza o si possa fare ancora qualcosa a livello normativo?
Si è fatto molto, ma stando ai numeri, direi che non si è fatto evidentemente abbastanza. Anche se io sono convinta che non ci siano interventi mancanti a livello normativo, piuttosto si può dire che le leggi da sole non bastano: sono una condizione necessaria, ma non sufficiente se non vengono accompagnate e sostenute da una rivoluzione culturale e di costume. Credo, infatti, che il discorso vada spostato su un altro piano se vogliamo favorire la partecipazione femminile alla politica, perché spesso sono i sistemi all’interno dei partiti che non favoriscono, al di là delle dichiarazioni “ufficiali”, di fatto e in termini di volontà reale e di sensibilità sincera la presenza delle donne nei livelli dirigenziali delle strutture stesse. Anche gli statuti dei partiti rappresentano talvolta un limite alla partecipazione femminile, infatti, tendenzialmente i partiti sono gestiti al maschile e sono portatori di una visione maschile della politica, allo stesso tempo anche alcune leggi elettorali non favoriscono l’eleggibilità e la rappresentanza delle donne in politica. C’è, inoltre, un ritardo storico che andrebbe colmato, che non è una responsabilità femminile, ma dipende da meccanismi che hanno origine con la data di acquisizione del diritto di voto attivo e passivo che è arrivato in Italia per le donne con enorme ritardo (febbraio 1945) e che, con la corresponsabilità dei partiti, ha prodotto una lontananza delle donne rispetto alla partecipazione, ma anche rispetto all’esercizio del potere politico. Premesso che tale ritardo continua a produrre i suoi effetti negativi anche a distanza di tempo, non credo che la soluzione sia una questione di carattere normativo, ma servono condizioni che favoriscano una reale partecipazione delle donne ai meccanismi della politica. Aggiungo che spesso nei programmi di alcuni partiti non ci sono elementi attrattivi per il mondo femminile, molti programmi si presentano deficitari in termini di proposta e nei confronti del mondo femminile. E non è un caso che nell’ambito dell’assenteismo alle urne registrato nel 2018 per il voto alle elezioni politiche la maggioranza dei non votanti fosse di sesso femminile. Insomma, non sono le donne disinteressate alla politica, c’è bisogno piuttosto di una politica che sia più inclusiva nei confronti delle donne.

Il tasso di partecipazione così basso alla vita politica è secondo Lei un indice del fatto che alle donne italiane non interessa la politica?
No, io non direi che alle donne italiane non interessi la politica, direi piuttosto che a una cattiva politica che non interessa il consenso delle donne, e questo si lega a quella mancanza di appeal, alla quale facevo riferimento, nei programmi elettorali. La presenza femminile nel Parlamento italiano è del 36,06% alla Camera e del 35,11% al Senato: sostanzialmente la media italiana si attesta intorno a quel 30%, circa un terzo, ovvero quello che viene indicato dall’Europa come soglia minima per garantire la rappresentanza di genere, nella consapevolezza matematica che è il 50% che garantisce ovviamente un’equa rappresentanza, ed è infatti considerata una soglia simbolica. Ma non mi farei complessi di inferiorità nazionale, perché in Europa nessun Paese ha raggiunto questa soglia simbolica del 50% di donne presenti nei parlamenti. Anche l’Islanda, che è andata al voto nel settembre 2021, sembrava aver oltrepassato il 50%, ma con il riconteggio non è stato questo il risultato; certamente ha comunque stabilito un primato con il 47,7% di presenza femminile nel proprio Parlamento, superando così la Svezia che ha il 47% di donne elette.
Quindi, ribadisco, nessun paese europeo ha raggiunto la presenza femminile del 50% di elette, mentre, nel contesto extraeuropeo, dobbiamo citare il Ruanda con il 61% di elette, Cuba con il 53% e il Nicaragua con il 59%, tuttavia, si tratta di Paesi che – nonostante la rappresentanza paritaria – hanno gravissimi problemi e criticità che riguardano anche la condizione femminile. Quindi, oltrepassare questa soglia simbolica non significa automaticamente essere un Paese rispettoso delle donne, né significa che la rappresentanza quantitativa corrisponda a un sistema democratico efficace, e comunque non può essere questo criterio matematico l’unico indicatore.

Uno dei principali strumenti normativi adottati sono le quote di genere: a suo avviso sono uno strumento normativo utile o discriminatorio?
Penso che siano piuttosto uno strumento e un meccanismo triste, un po’ da “riserva indiana”. Comunque, io sono un esponente di Fratelli d’Italia e la nostra storia dimostra che abbiamo risolto il problema della parità di genere e della rappresentanza come nessun altro partito, direi che lo abbiamo risolto a monte. Per noi vale il merito e non il concetto della “quota femminile”. Infatti, noi siamo l’unico partito italiano con un presidente donna, Giorgia Meloni, che è anche l’unica donna presidente di un gruppo europeo, quello dei conservatori riformisti europei (ECR), e anche la prima italiana a ricoprire questo ruolo. In Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, già leader giovanile nelle organizzazioni studentesche di destra, ha raggiunto i vertici della politica come Ministro della Repubblica ed è diventata la nostra Presidente non perché è donna, ma perché è brava. Anzi, perché è la più brava. Nessuno tra noi l’ha ostacolata né favorita perché donna, ma l’intero ambiente l’ha riconosciuta come leader, appunto, per i suoi meriti. Inoltre, la leadership femminile storicamente emerge e si afferma in ambienti culturalmente e politicamente di destra, piuttosto che in ambienti di sinistra. Ci sono partiti, infatti, che hanno speculato per decenni sulla questione femminile, ma arrivati al dunque, come ad esempio nella formazione del Governo, non solo non hanno rispettato i principi di rappresentanza di genere predicati, ma non sono mai stati in grado di esprimere vere leadership femminili. In generale, c’è sicuramente ancora molto da fare, ma Fratelli d’Italia in questo non può prendere lezioni da nessuno, ma solo essere di esempio.

È corretto secondo Lei declinare i titoli professionali al femminile? E in che misura utilizzare correttamente il linguaggio di genere è utile per produrre parità?
La lingua italiana è la lingua pura per eccellenza ed è ricchissima di vocaboli ed espressioni e certe forzature lessicali, dettate dal politicamente corretto e dal cosiddetto sessismo linguistico non mi convincono. Infatti, ritengo che le questioni si affermino nella sostanza, ovvero nel merito e nelle capacità di interpretare al meglio i ruoli e non declinando le desinenze. E restando proprio nella sostanza delle cose, il linguaggio di genere può essere talvolta anche strumentalizzato ed usato come specchietto per le allodole, perché la reale criticità è che dobbiamo distinguere tra una parità formale, normativa e descrittiva pienamente raggiunta da una parità sostanziale e sociale ancora da raggiungere. Infatti, abbiamo in Italia un’architettura legislativa sulle parità e le pari opportunità estremamente robusta e di garanzia, e non sono, quindi, le norme a mancare. Il vero problema, infatti, è l’accesso reale a quanto garantito per legge, evitando insomma un dumping nell’accesso ai diritti garantiti. Per esempio, finché il mercato del lavoro non assorbirà il tema della maternità le donne saranno penalizzate, questo perché la si considera ancora un fatto privato, invece che riconoscerne una valenza sociale. Considerato ciò, più che piegarmi a questo pensiero unico che si esercita in tante forme, comprese le forzature linguistiche, mi concentrerei politicamente per ridurre il gap esistente e oggettivo tra la parità normativa e la parità sostanziale.

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