Percorso:

Area – Il welfare e le donne

1. Premessa

Le politiche sociali ricoprono un ruolo determinante nella definizione della qualità della vita e delle condizioni di lavoro di donne e di uomini. Il nodo indissolubile tra le politiche sociali e quelle per l’occupazione, ci spinge a considerare le politiche di promozione dei servizi non solo come azioni mirate alla realizzazione delle pari opportunità e dell’uguaglianza di genere ma, come interventi volti al miglioramento delle condizioni complessive di vita.
La crisi del modello interventista dello Stato Sociale, iniziata negli anni settanta, ha prodotto disgregazione e recessione sociale prima che economica, che ha fatto emergere una nuova questione sociale, di cui la crisi del ceto medio è la classica punta dell’iceberg. In questa nuova questione sociale, le donne rappresentano una fascia particolarmente vulnerabile e sono le donne a pagare i costi esistenziali più alti.

Alla crisi dei tradizionali modelli di Welfare state si addebitano alcune delle responsabilità della crescente povertà femminile. Nell’emersione di nuove forme di povertà, qualitative ed immateriali oltre che quantitative, si stima una massiccia presenza femminile; si parla, addirittura, di femminilizzazione delle nuove povertà.

La povertà, non è solo una condizione di privazione di beni materiali e di impossibilità di soddisfare bisogni primari. La condizione di indigenza si accompagna ad un fenomeno che aggrava, radicalizza e rende cronico lo stato di povertà: l’esclusione sociale.

L’immiserimento provoca una progressiva marginalizzazione dei soggetti colpiti che, lentamente sono spinti ai margini della società, perdendo una collocazione sociale e personale all’interno della comunità di appartenenza. L’impossibilità di mantenere un aspetto decoroso e accettabile svilisce e disorienta il povero, privandolo del riconoscimento della propria identità e precludendo la dimensione relazionale. Una condizione di precarietà economica, smaglia o lacera la sottile rete di relazioni con la comunità e la società di appartenenza.

I danni provocati da questo circolo vizioso povertà-marginalità-esclusione non sempre sono sanabili, perchè non è facile reinserirsi dopo esperienze dolorose ed umilianti.

Un intervento di recupero, nella volontà di creare un circolo virtuoso, non può prescindere dall’inserimento lavorativo, che rappresenta una condizione importante per disporre delle risorse necessarie a soddisfare i propri bisogni, secondo tempi e modalità progressivi.

La condizione femminile, inoltre, è caratterizzata da una «sperequazione sociale» che attiene l’iniqua distribuzione del lavoro di cura; sulle donne, infatti, si concentra quasi il 70% del cosiddetto lavoro di cura. In questo senso le donne hanno rappresentato e continuano a farlo – insieme alle famiglie – un ammortizzatore sociale ed una sorta di «stampella» ai modelli zoppicanti di Welfare.

Le reti parentali ed informali, le donne – e molto spesso i nonni – hanno finito per costituire segmenti di Welfare integrativo se non sostitutivo e comunque fondamentale; in particolare, il lavoro di cura – nella sua interpretazione estensiva di cura non solo dei figli minori ma anche dei malati e degli anziani a carico – non soltanto non ha trovato adeguato riconoscimento economico, e questo mette le donne in una condizione di dipendenza dalla famiglia e/o dal partner, ma incide negativamente sulle dinamiche di ingresso, di permanenza e di carriera delle donne nel mondo del lavoro. Inoltre, l’impegno del lavoro domestico e della famiglia spesso rende del tutto impraticabile quello esterno, poiché i costi di quel lavoro di cura che eventualmente una donna non eseguirebbe essendo impiegata altrove sarebbero ben più elevati delle entrate di un secondo stipendio.

Le donne e le famiglie, insomma, produco beni ed offrono servizi alla persona; parte del lavoro di cura prende la forma di un crescente impoverimento delle fasce più deboli e, nello specifico delle donne, soprattutto di quelle donne che hanno perso il supporto del Welfare e che non possono disporre di una famiglia in grado di sostituirsi ad esso, per una serie di motivi quali, il divorzio,la morte del coniuge o dei genitori, una malattia.

La carenza delle infrastrutture sociali non è, però, l’unica responsabile del sovraccarico di lavoro che le donne hanno. Una diversa distribuzione del lavoro di cura all’interno della famiglia e della comunità ridurrebbe l’impegno sociale delle donne, un lavoro «invisibile» e non riconosciuto o riconosciuto solo all’interno delle mura domestiche.

Sulla base dei mutamenti socio-culturali ed economici in atto si è verificata, negli ultimi anni, una progressiva riconsiderazione e ridefinizione dei modelli di Welfare, in relazione – anche – ad i «cambiamenti in corso nel Paese sia dal punto di vista delle riforme strutturali (declino della centralità dello Stato, decentramento dei poteri, nuovo ruolo degli Enti locali), sia delle spinte che provengono dalla società in termini di maggiore organizzazione del privato sociale e del crescente bisogno di erogazione di servizi alla persona». Tra le sfide che i mutamenti hanno lanciato ai sistemi di Welfare, rientrano l’aumento della presenza femminile nel mondo del lavoro; le transizioni demografiche; il progressivo allungamento della vita media ed il conseguente invecchiamento della popolazione; le modificazioni delle tipologie familiari; l’affermazione di stili di vita e di consumo più individualizzati; l’emersione delle nuove povertà familiari.

Il Rapporto Istat 2004 sottolinea come le famiglie italiane siano sole, quasi ai margini di un sistema di Welfare che non riesce ad intercettare nuovi bisogni e nuove domande; e gli spazi lasciati vuoti dallo stato sociale favoriscono l’avanzata del non-profit e del mondo del volontariato con la sua offerta di servizi.

Infatti, uno degli effetti più evidente della crisi del modello «tradizionale» di Welfare state centralistico ed interventista, è il ruolo strategico e quasi di «prima linea» assunto dal terzo settore sul fronte del privato sociale.

Il Welfare descritto dal Rapporto Istat – e che trova ampio riscontro – può essere riassunto in quattro punti-tendenza: privatizzazione dei servizi; disomogeneità regionale nella spesa sostenuta per i servizi, con profonde differenze tra il Nord ed il Mezzogiorno del nostro Paese; dispersione e frammentazione delle responsabilità (spezzettate tra istituzioni centrali, regioni, comuni e organizzazioni private); l’emersione di significativi segmenti di Welfare locale (favorita anche dal processo di decentramento e di devoluzione di competenze, effetto della riforma del Titolo V della Costituzione).

Nella dinamica donne-Welfare si inserisce la questione dei servizi e, con essa, il nodo del lavoro femminile.

Nonostante il costante incremento dell’occupazione femminile – fenomeno peraltro non uniforme sul territorio nazionale – i tassi italiani di partecipazione delle donne al mondo del lavoro restano più bassi (di circa 10 punti percentuali) rispetto alla media dei Paesi europei dell’Unione e, drammaticamente lontani dalla strategia europea di Lisbona 2000, che aveva fissato – per il 2010 – il traguardo-obiettivo del 60% di occupazione femminile.

Non si può non considerare, inoltre, che a fronte dell’oggettiva riduzione del divario occupazionale di genere, tendono «ad ampliarsi le differenze di genere dovute all’entità e all’organizzazione temporale degli impieghi». E, ancora, il gap di genere si riscontra, anzi si accentua, nelle rilevazioni sulle progressioni di carriera, sui ruoli dirigenziali, sull’ascesa ai luoghi di potere decisionale ed, addirittura, sugli aspetti salariali e retributivi. Insomma, ad ogni statistica di genere non sfugge che restano delle «criticità femminili» non solo nell’accesso ma anche e soprattutto per la permanenza ed il ricollocamento nel luogo di lavoro dopo esserne uscite per la maternità o per circostanze legate al «lavoro di cura» e delle famiglia.

Il mercato del lavoro italiano è stato tradizionalmente caratterizzato, come modello egemone, dalla rigidità ed in tale contesto le forme atipiche potevano sfociare nella precarietà ma, l’attuazione della Riforma, ha introdotto dinamiche nuove di flessibilità e di nuove forme lavorative. Le novità introdotte possono incoraggiare la conciliazione e favorire il passaggio dalla «conciliazione soggettiva» a quella «oggettiva» e realizzare il bilanciamento necessario tra vita e lavoro, quel work-life balance che tutti i moderni modelli di Welfare state attivo indicano come uno degli obiettivi principali da conseguire.

Nelle discussioni sui modelli di Welfare, si sta consolidando una prospettiva innovativa che contestualizza la conciliazione in un quadro più ampio ed articolato, teso a sviluppare nuovi modelli di organizzazione aziendale e del lavoro che rendano concretamente possibile la conciliazione lavoro-famiglia , ampliando – anche – il raggio di interventi di conciliazione e migliorando gli standard di flessibilità.

Rientra a pieno titolo nel nodo della conciliazione l’evidenza che la maternità non risulta ancora «assorbita dal mercato del lavoro» e continua a rappresentare se non un «fattore di espulsione» dal mondo del lavoro, comunque una scelta faticosamente conciliabile – e quindi condizionata – con gli impegni lavorativi e con un certo tipo – per fortuna in via di superamento – di modelli organizzativi.

Infatti, anche se l’occupazione femminile cresce costantemente e la posizione lavorativa delle donne tende ad un continuo miglioramento, resta sul tappeto la questione della conciliazione che deve essere affrontata non in modo settoriale ma con approccio sistemico, come sistema di politiche attive ed integrate (sociali, lavorative, del territorio, dei servizi) e come insieme intrecciato di interventi sugli aspetti strutturali e sulle modalità organizzative del lavoro.

2. Politiche di mainstreaming nel lavoro

Ridurre il divario tra l’occupazione maschile e quella femminile e promuovere politiche di pari opportunità è un tema centrale anche nella Riforma del mercato del lavoro in Italia. La Riforma Biagi (Legge delega n.30/2003 e Dlgs 276/2003) ha infatti introdotto regole a garanzia di un mercato del lavoro più flessibile e moderno, che tende a coniugare le esigenze delle lavoratrici e dei lavoratori con quelle delle imprese, nel rispetto della pratica del mainstreaming, segnalata dalle direttive europee come strategia essenziale per raggiungere gli obiettivi di Lisbona. Il mainstreaming, elaborato nella IV Conferenza mondiale sulle donne (Pechino, 1995), è una metodologia progettuale che consiste nel coinvolgere tutti i membri di una partnership di sviluppo attraverso precisi interventi, sia a livello orizzontale (sperimentazione nel progetto di nuovi modelli/prodotti/servizi esportabili verso altri sistemi locali), sia a livello verticale (creazione di partenariati stabili tra soggetti diversi), finalizzati alla programmazione di politiche di pari opportunità e sostegno all’occupazione femminile e ai servizi di conciliazione. Più semplicemente, il mainstreaming può essere considerato come l’adozione di un punto di vista di genere nelle iniziative politiche e di lavoro.

Il processo, per certi aspetti, parte da più lontano, dalla Strategia europea per l’occupazione, avviata dall’Unione nel 1997 per il quinquennio successivo; valutata dalla Commissione europea nel 2002, ha riportato risultati largamente positivi: dai progressi compiuti sul fronte della modernizzazione dell’organizzazione del lavoro, alla promozione sistematica delle pari opportunità tra donne e uomini (gender mainstreaming) fino allo sviluppo di strutture di assistenza all’infanzia per una migliore conciliazione della vita professionale e familiare. Ma il processo non è finito.

L’Italia ha, tra i Paesi europei, uno dei tassi più bassi di occupazione femminile, almeno se si fa riferimento ai dati ufficiali del lavoro regolare. In realtà esiste anche «un’economia» parallela di lavoro sommerso, di cui una buona quota è rappresentata dalle donne. Proprio la componente femminile è parte del problema, perché le condizioni attuali non permettono di conciliare facilmente la partecipazione attiva al mercato del lavoro con gli impegni della famiglia, dalla cura dei figli a quella degli anziani e dei disabili. I dati comparati dimostrano come l’Italia abbia bisogno di rendere il lavoro a orario flessibile e ridotto alla portata di giovani e donne, anche per combattere il lavoro nero e favorire l’emersione. La Legge Biagi ha operato in questo senso, prevedendo per esempio un miglioramento delle norme sul part-time, con l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli alla piena valorizzazione di una tipologia di contratto utile a coniugare lavoro e famiglia, ampliandone le possibilità di applicazione e rendendola anche valida dal punto di vista della copertura previdenziale.

Ma per sostenere e sviluppare l’attuazione delle norme previste dalla Legge Biagi, si pone il problema prioritario di strutturare sul territorio un sistema di servizi che promuovano l’informazione, la conoscenza, la sperimentazione e l’utilizzo delle nuove opportunità di flessibilità e conciliazione, insieme allo sviluppo contestuale di forme di sostegno alla famiglia.

3.Il lavoro femminile

In termini generali, la riqualificazione del mercato del lavoro passa attraverso la diffusione delle nuove tecnologie, l’inclusione sociale e l’integrazione lavorativa delle fasce più deboli e vulnerabili, e lo sviluppo delle pari opportunità lavorative.

La Comunità Europea ha esercitato un ruolo fondamentale nell’impostazione di una politica di parità di genere e, la promozione della parità tra uomo e donna è uno dei compiti prioritari previsti dal Trattato dell’Unione Europea.

L’azione della Comunità europea ha mirato, sin dall’inizio, a rimuovere le disuguaglianze e le disparità, eliminando le forme di discriminazione; e in questa direzione vanno i Programmi di azione comunitaria – con le clausole specifiche per le pari opportunità – e le tante azioni positive messe in campo per contrastare gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione di una parità effettiva.

Le cosiddette affermative actions e azioni positive nascono in Europa nel corso degli anni ottanta e la Comunità europea raccomanda agli Stati membri di prevedere la promozione di azioni positive a favore delle donne; misure promozionali finalizzate – in particolare – a conseguire uguali opportunità nell’accesso al lavoro quanto nello svolgimento dell’attività professionale.

L’Italia – come stato membro – accoglie le Raccomandazioni e dagli anni ottanta in poi «fioriscono» una serie di interventi legislativi che, in misura e con approcci diversi, mirano e contribuiscono alla tutela della parità ed alla promozione delle pari opportunità, in tutti campi della società. Tra le altre leggi, solo per citarne alcune, la n.125 del 10 aprile 1991 sulle Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna; la n. 215 del 92 su pari opportunità e imprenditoria femminile; il decreto legislativo n.196 del 23 maggio 2000 – la cosiddetta «nuova 125» – che potenzia le funzioni e l’attività delle Consigliere e dei Consiglieri di Parità (figura istituita nel nostro ordinamento già negli anni ottanta); la legge n.53 dell’8 marzo 2000, contenente disposizioni sui congedi parentali.

La Comunità europea è intervenuta con direttive, informative e raccomandazioni, promosse affinché i Paesi membri adottassero misure atte a favorire la conciliazione e l’equa distribuzione dei carichi di cura.

Il riferimento ai soggetti femminili è persistente nel Quadro comunitario di sostegno (Qcs, 2000/2006) e, la Strategia Europea per l’Occupazione (SEO) si basa su quattro pilastri concettuali: adattabilità, sicurezza, qualità, flessibilità; ma le pari opportunità e la parità di genere sono assunte quali fattori imprescindibili per la realizzazione dei nuovi obiettivi perseguiti: piena occupazione, miglioramento della qualità e produttività sul posto di lavoro e rafforzamento della coesione e dell’integrazione sociale. Nella nuova programmazione del Fondo Sociale Europeo (2000-2006), principale strumento finanziario per l’attuazione della SEO, il tema delle pari opportunità ricopre un ruolo di fondamentale importanza; si insiste con azioni positive e misure di promozione per la presenza femminile nel mondo del lavoro e si incentiva un approccio di mainstreaming in tutte le scelte politiche.

Costantemente, le rilevazioni statistiche sull’occupazione evidenziano che nel nostro Paese la pressione delle donne sul mercato del lavoro è in continua crescita, questa pressione – insieme all’introduzione di nuove forme contrattuali più flessibili – rappresenta la principale trasformazione del sistema lavorativo italiano.

Ma nonostante i segni di dinamicità, la condizione lavorativa femminile resta fortemente penalizzata al livello nazionale ed in particolare nel Mezzogiorno. I dati, infatti, vanno letti anche partendo dalla considerazione che esistono forti squilibri territoriali tra nord e sud del Paese; nella fisionomia dei divari territoriali di genere all’interno del mercato del lavoro – che sono un’altra criticità del segmento femminile – si va configurando anzi rafforzando una questione meridionale come questione prevalentemente femminile.

La crescita delle donne nel mercato del lavoro è fenomeno evidente e generalizzato ma non capillarmente diffuso sul territorio nazionale; perdura – infatti – il divario tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Nel sud si concentrano due elementi negativi: il più basso tasso di occupazione femminile e il più basso livello di assistenza e servizi alle famiglie. Le donne del Mezzogiorno lavorano di meno rispetto a quelle del centro e del nord Italia ma anche quando lo fanno incontrano molte più difficoltà ad accedere a strumenti di sostegno come asili nido, baby sitter, badanti per gli anziani e i parenti malati.

Sul piano nazionale non c’è un comparto in Italia ove l’incidenza del lavoro femminile non sia al di sotto della media europea (ad esclusione di quello della Pubblica Amministrazione) e persiste il divario strutturale di genere all’interno del mercato del lavoro. «»

In Italia, le donne oggi si avvicinano al mondo del lavoro in età più avanzata nel tempo e con un livello di istruzione più elevato; nonostante il maggiore investimento femminile nella formazione e nell’istruzione e, nonostante il raggiungimento di traguardi elevati nella carriera scolastica, le ragazze diplomate e le giovani laureate trovano lavoro più tardi dei loro coetanei e, spesso, trovano lavori meno qualificati (o comunque non adeguati al titolo di studio conferito), meno stabili e meno retribuiti.

Per le donne in cerca di primo impiego, si è registrata, inoltre, una permanenza più lunga nell’area della disoccupazione e si tratta di una disoccupazione che riguarda anche risorse qualificate.

In particolare, nel corso «degli ultimi dieci anni, l’occupazione delle donne è cresciuta molto di più di quella maschile e nel 2003 si è arrivati a 13 milioni 690 mila occupati e 8 milioni 365 mila occupate, rispettivamente 275 mila e 1 milione 296 mila in più, rispetto al 1993. La crescita dell’occupazione femminile, negli ultimi dieci anni, ha fornito un contributo complessivo pari a più dell’80% della rilevante espansione dell’occupazione».

Il gap di genere si registra, anzi si accentua, nel posizionamento professionale, tanto nell’ambito del lavoro dipendente quanto in quello del lavoro autonomo; persiste il fenomeno della segregazione verticale nella presenza delle donne nei ruoli dirigenziali, in quelli imprenditoriali e in quelli ad alta qualificazione professionale.

Il 37° Rapporto del Censis sottolinea come, nelle aree di criticità del lavoro delle donne, si debba considerare «non soltanto ciò che attiene il loro basso livello di partecipazione al lavoro rispetto alla media europea, ma anche la loro condizione occupazionale».

Insomma, nonostante i miglioramenti quantitativi e qualitativi, le donne continuano a rappresentare una «forza-lavoro» debole e sussiste il pericolo che si consolidino due bacini di occupazione: uno per gli uomini, garantito, a tempo indeterminato e ben remunerato; ed un altro per le donne, precario, a tempo determinato, «sottoremunerato».

Dal Rapporto Censis in oggetto emerge che, in linea generale, l’occupazione che si è creata negli ultimi anni è sempre più di «corto respiro», temporanea ed atipica. C’è stato un aumento di lavoro «debole» di basso rango, con bassa professionalità e retribuzione contrattualmente non stabile che rende le donne maggiormente penalizzate nel mercato del lavoro.

Lo svantaggio femminile – come abbiamo visto – è costituito dalla difficoltà non solo di trovare un’occupazione ma di avere un lavoro adeguato al titolo di studio conseguito, perlomeno all’inizio della vita lavorativa. Inoltre, dopo l’ingresso nel mercato del lavoro, le donne risultano essere svantaggiate rispetto agli uomini nelle tipologie lavorative svolte ma anche nei termini retribuiti. Il differenziale retributivo tra lavoratori e lavoratrici, la sperequazione di trattamento economico tagliano in modo trasversale tutte le tipologie di lavoro e le diverse posizioni professionali; le differenze di guadagno dipendono – in parte – dal fatto che le donne accedono più difficilmente degli uomini a posti ben remunerati ed a posizione di vertice di carriera ma, anche a parità di qualifica e di professione svolta, le donne guadagnano di meno dei colleghi maschi: circa 200 euro al mese per coloro che svolgono professioni «intellettuali» e 180 per i tecnici.

Tendenzialmente, in Italia e nel resto d’Europa, cresce tutta l’occupazione e in particolare quella femminile, secondo orari e modalità non standard. I contratti di flessibilità e la rivalutazione del part-time, lanciano una sfida al problema delle politiche attive di conciliazione, intese come reti di servizi di supporto alle famiglie e come gestione diversa del sistema dei tempi di lavoro.

La flessibilità lavorativa e le nuove modalità introdotte: il lavoro a chiamata (job on call), il lavoro condiviso (job sharing), il lavoro occasionale e accessorio ed altre, rappresentano una risposta alle esigenze della produzione ma esiste il rischio, che si ecceda nella direzione della flessibilizzazione dei ruoli lavorativi e nella disarticolazione dei percorsi professionali e nella limitazione della progressione di carriera (ingresso facile ma crescita difficile). La flessibilità deve costituire per le donne un elemento di garanzia non di esclusione, o una forma di penalizzazione lavorativa o – peggio – di segregazione professionale.

In sostanza,la transizione femminile verso il mondo del lavoro continua a rappresentare una criticità: nell’ingresso, nella permanenza (workfare), nel ritorno e nel retravailler dopo la maternità; ci dibattiamo tra paradossi e zone d’ombra, tra queste, anche il lavoro nero o sommerso (in cui si stima una rilevante presenza femminile), lo sfruttamento del lavoro, lo scarto tra alta istruzione femminile e bassi risultati professionali, le differenze salariali e retributive.

Fino a ieri il lavoro atipico, in Italia, andava spesso a configurarsi come lavoro poco tutelato, la flessibilità veniva contrabbandata per la conciliabilità lavoro-famiglia e si coniugava soprattutto al femminile.

Oggi, dopo la riforma del mercato del lavoro, lo scenario italiano sta mutando e la flessibilità – e le nuove modalità lavorative – può rappresentare una responsabilità sociale ed accetta; la flessibilità può diventare una risorsa, un’opportunità di accesso e di valorizzazione per le donne.

La flessibilità di per sé non è né buona né cattiva, come si usa dire, ma è il suo impiego positivo o negativo che ne definisce la natura, ed è legittimo sostenere che la flessibilità vada governata.

«Governare la flessibilità» significa accentuarne le potenzialità di risorsa e di opportunità e, in questa ottica, la flessibilità deve essere assunta come responsabilità sociale e condivisa da tutti i soggetti del mercato del lavoro, nella convinzione che nessuna misura isolata possa risolvere i problemi della conciliazione e nella certezza che il nodo delle politiche attive di conciliazione sia il nodo fondamentale del mercato del lavoro.

4.Il nodo della conciliazione

Dagli anni novanta, la questione della conciliazione dei tempi di lavoro e dei tempi «di cura» compare nei documenti ufficiali dell’ Unione europea per assumere, progressivamente, un ruolo centrale nelle politiche di pari opportunità, al livello comunitario.

Il termine conciliazione si presenta, sin dall’inizio, piuttosto complesso e la complessità si riflette sul piano degli interventi; tutt’ora il termine resta circondato da un alone di indeterminazione e di ambiguità che non ne facilita la percezione immediata.

Con questo termine, comunque, si intendono tutte le misure di politiche sociali tese a facilitare la combinazione dei tempi del lavoro di cura con quello extradomestico ed extrafamiliare.

L’Unione Europea ha individuato nelle misure di conciliazione un elemento di garanzia per l’acquisizione e l’esercizio delle pari opportunità; gli Stati membri recepiscono le indicazioni europee ed i diversi sistemi di Welfare nazionali attuano politiche di conciliazione, che riflettono le diverse concezioni culturali della famiglia.

I Paesi dell’Europa meridionale sono caratterizzati da una centralità della famiglia, che offre sostegno economico e prestazioni di cura; questi Paesi – in linea di tendenza – elaborano politiche di conciliazione che presuppongono una rete di solidarietà familiare e generazionale.

Il nostro Paese comincia ad introdurre politiche di conciliazione negli anni novanta, si ricordi la legge n. 285/97; ma è solo con la già citata legge n. 53/2000 che si radicano prassi più definite e nitide di conciliazione.

Dagli anni novanta ad oggi è evidente che la questione – perché di questione e articolata si tratta e non di semplice tema – della conciliazione abbia assunto valenza politica e rilievo e rilevanza sociali; in uno scenario lavorativo – per giunta – in continuo mutamento e in divenire e, che ha subito accelerazioni speciali con gli effetti introdotti dalla Riforma del Mercato del lavoro.

Nella questione della conciliazione si possono intravedere tre assunti di fondo: 1) si tratta di un nodo politico ancora irrisolto; 2) non è una faccenda che riguardi solo le donne ed il mondo del lavoro femminile; 3) ogni insuccesso di conciliazione contribuisce ad ampliare le forme di esclusione e le fasce di marginalità sociali (i costi della non-conciliazione).

I tempi del lavoro moderno ed i tempi della famiglia non coincidono, visto che la cura della famiglia in generale è affidata e delegata interamente alla donna, che deve riuscire a conciliare i propri impegni professionali con quelli familiari, spesso a scapito della carriera o di opportunità di lavoro migliori.

In questo contesto il lavoro extradomestico continua a restare secondario per le donne, rispetto a quello familiare e il carico familiare incide negativamente sulla permanenza delle donne nel mondo del lavoro e sulla loro presenza nei livelli più alti.

La contrazione della forza lavoro giovane, dovuta al progressivo invecchiamento della popolazione ed ai bassi tassi di natalità, potrebbe rappresentare un elemento favorevole all’occupazione delle donne, ma questo soltanto se il lavoro di cura non continuerà ad essere affidato e delegato interamente – o comunque in grande misura – alle donne.

Anche se l’occupazione femminile cresce in tutti i tipi di lavoro e tende a migliorare la posizione lavorativa della donna, non solo resta irrisolta la questione della conciliazione tra lavoro e famiglia ma si mantengono alcune criticità trasversali alle diverse zone del Paese

Questo intreccio rinnova e ripropone la centralità del tema della conciliazione, che merita di essere affrontato non in modo settoriale ma sistemico; ossia come sistema integrato di politiche attive, sociali, lavorative e del territorio e come insieme di interventi sugli aspetti strutturali del sistema lavoro italiano.

Per risolvere il nodo della conciliazione è necessario attuare interventi articolati a più livelli: nell’offerta dei servizi, nei modelli culturali e di socializzazione, nelle forme organizzative del lavoro e in quelle di regolazione del mercato del lavoro.

Il problema della conciliazione incide sull’accesso al mercato del lavoro, sulla progressione di carriera, sull’ascesa ai luoghi decisionali politici ed economici, sul mantenimento del lavoro nel momento in cui nascono i figli e nel ricollocamento lavorativo dopo l’uscita per maternità.

In questo contesto dato, la maternità, continua a porsi come una scelta difficilmente conciliabile con gli impegni lavorativi; inoltre è stata svuotata del suo valore e della sua centralità sociali e scaricata interamente sulle spalle delle donne e delle famiglie, come una fatto privato cui privatamente «fare fronte». In questi termini la maternità non può essere vissuta come scelta autentica ed i desideri di procreazione si scontrano con la carenza dei servizi per la prima infanzia, con la scarsità di politiche organiche per la famiglia e con un atteggiamento del mondo del lavoro che tende a penalizzare la lavoratrice madre.

Nonostante le tutele legislative (di cui, in appendice, si offre una visione d’insieme ed orientativa), la maternità non è posta come libera scelta per una donna che voglia lavorare ma – anzi – si va quasi configurando come un conflitto, un’alternativa ostativa rispetto ai desideri lavorativi ed agli obiettivi di carriera professionale; è anche per questo – oltre che per la posticipazione delle scelte procreative – che , in Italia, si fanno meno figli e siamo agli ultimi posti della «graduatoria» europea per il tasso di fertilità, con una media nazionale di 1,29 figli per donna.

Nel confronto europeo si deve evidenziare che, in molti Paesi del Nord Europa è cresciuta la fecondità anche in presenza di un’alta percentuale di occupazione femminile, grazie a politiche familiari e di sostegno alla maternità, di flessibilità degli orari di lavoro, di offerta di servizi, di maggiore corresponsabilità degli uomini nel lavoro familiare.

E’ di evidenza empirica che bisogna intrecciare le politiche di conciliazione – affrontate con approccio sistemico e non settoriale, come abbiamo affermato – e dei servizi con le nuove offerte del mondo del lavoro, compreso il part-time (di qualità, scelto e non penalizzante) e le altre modalità flessibili e non standard.

La conciliazione non solo è un nodo irrisolto ma si evidenziano alcune criticità legate alle diverse zone del Paese, riflesso dei differenti segmenti locali di Welfare; questa situazione potrebbe portare al paradosso – e lo prendiamo come metafora – che, in termini di conciliazione, essere madre al Nord potrebbe essere più facile che esserlo nel Sud d’Italia.

In realtà, la conciliazione più diffusa è quella che gli esperti definiscono «soggettiva ed individuale o di genere», basata sui funambolismi e sulle capacità combinatorie delle donne e sui loro tentativi diversificati per rendere compatibili le diverse funzioni che esercitano. Nel nostro Paese si ravvisa un ricorso consistente alle rete di aiuti informali e alla solidarietà intergenerazionale e, a fronte di un’oggettiva carenza di servizi, i nonni continuano a costituire un importante segmento di Welfare .

L’approdo cui tendere – e le premesse ora ci sono tutte – è quello, invece, di una «conciliazione oggettiva e di sistema»; una conciliazione come sistema che si lasci alle spalle ogni approccio settoriale per basarsi sull’intreccio tra politiche di conciliazione e dei servizi con le nuove modalità, sempre più flessibili, offerte dal mondo del lavoro.

La conciliazione di sistema si ispira ad un’organizzazione familiare in cui il lavoro di cura e domestico, e quello professionale extradomestico siano equamente ripartiti tra uomo e donna secondo una cultura della condivisione e, necessariamente, secondo una ristrutturazione dei ruoli maschili e femminili in seno alla famiglia e nel contesto sociale. Un cambiamento culturale che introduca i concetti di diversità/specificità di genere nell’ottica più ampia della complementarietà uomini/donne, nei ruoli e nelle funzioni sociali e lavorative.

5. La conciliazione non è solo donna

Per diminuire il gap tra l’occupazione maschile e quella femminile è quindi fondamentale puntare su tutti quegli strumenti che facilitano la conciliazione lavoro/famiglia, per consentire a un numero sempre maggiore di lavoratori e lavoratrici di coniugare l’assistenza e la cura dei figli e degli anziani, peraltro sempre più condivise con gli uomini, con le prospettive lavorative e di carriera.

La piena conciliazione si può realizzare lungo tre direttrici di intervento: i) sviluppo di nuove e diverse forme di lavoro flessibile; ii) programmazione pubblica di governo per la realizzazione di servizi alla persona, sostegno alla famiglia, promozione delle opportunità di formazione continua; iii) dialogo tra le parti sociali in grado di stimolare il cambiamento anche dal punto di vista della cultura dell’organizzazione aziendale.

Dal punto di vista normativo la conciliazione è una via praticabile, occorre però verificarne lo stato di attuazione e soprattutto fare in modo che gli strumenti di flessibilità, che facilitano in particolare l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, non si traducano poi nel tempo in un ostacolo alla loro permanenza e crescita professionale.

Per le donne è questo il punto critico: conciliare la famiglia e la carriera, rientrare dopo i periodi di inattività legati a maternità e cura della famiglia, raggiungere posizioni elevate a livello professionale, vedendo quindi rispettato di fatto il loro diritto alle pari possibilità di sviluppo e di carriera.

Anche se il tema della conciliazione tra vita familiare e vita lavorativa riguarda oggi ancora prevalentemente il mondo femminile, si stanno affacciando nuove realtà. Gli strumenti di tutela e di flessibilità sono chiaramente rivolti a tutti, senza differenza di genere: dai nuovi contratti di lavoro previsti dalla Biagi, alla legge per il sostegno della maternità e paternità per il diritto alla cura (Legge 53/2000 e Dlgs 151/2001), fino alle opportunità per la formazione continua e la crescita professionale.

In parte per cultura, in parte per ragioni intrinseche alle naturali differenze di genere, fino a oggi il problema della conciliazione ha riguardato soprattutto le donne. Se si punta però l’attenzione sul fatto che la cura della famiglia non si limita alla gestazione e al parto, ma che l’impegno familiare riguarda anche (e in certi casi soprattutto) la crescita dei figli e l’assistenza ai genitori anziani e/o ai parenti ammalati, disabili o non autosufficienti, non ci sono più ragioni materiali e immateriali per limitare le responsabilità di gestione (e la conseguente rinuncia alla carriera lavorativa) alla componente femminile della famiglia. Congedi parentali, permessi e aspettative sono a disposizione anche degli uomini e, seppur in percentuali ancora molto basse, padri, figli e mariti cominciano a usufruirne. Anche il part-time è uno strumento di flessibilità utile alla conciliazione e a disposizione degli uomini quanto delle donne. Ma mentre tra queste ultime il motivo del ricorso al part-time è quasi esclusivamente «familiare», tra gli uomini è ancora legato a ragioni di «puro ripiego», perché non si è trovata un’alternativa a tempo pieno e le motivazioni di impegni familiari restano del tutto marginali, seppur in leggera crescita .

6. Il part time è solo femminile?

In questi anni la scelta dell’Italia è stata soprattutto quella di concentrare gli sforzi per aumentare il tasso di occupazione e per eliminare «gli ostacoli e i disincentivi a entrare o rimanere nel mondo del lavoro», come indicato nel Libro Bianco sul Welfare (febbraio 2003), largamente ispirato alle linee guida di Lisbona. Anche per questo si è puntato molto sullo sviluppo di forme di lavoro come il part-time, fino a oggi molto più diffuso tra le donne: nel 1993 le occupate part-time in Italia erano 793 mila, nel 2003 si è arrivati a 1 milione e 447 mila. In termini percentuali: nel 2000 le occupate part –time erano il 16,5%, nel 2003 sono diventate il 17,3% del totale.

Sono soprattutto le lavoratrici del centro-nord a richiederlo e, per la maggior parte di esse, il part-time costituisce uno dei principali strumenti che permettono di conciliare il carico familiare con gli impegni di lavoro. Il ricorso a questa forma contrattuale – resa ancora più flessibile dagli interventi legislativi – si conferma come una determinante importante per la stessa partecipazione delle donne al sistema occupazione. In tutti i paesi dell’Unione i dati sulla diffusione del part-time, sul tasso di occupazione generale e su quello femminile, risultano direttamente correlati: dove è maggiormente diffuso il primo risultano elevati anche gli altri due.

Il Part- time è lo strumento di flessibilità d’orario più diffuso e – ad oggi – si configura con un ricorso più femminile che maschile, perché favorendo la conciliazione il part- time contribuisce oggettivamente ad agevolare l’accesso e la permanenza delle donne nel mondo del lavoro.

Il lavoro a tempo parziale si caratterizza per un orario di lavoro inferiore a quello normale (full-time, in genere di 40 ore settimanali);in tal modo permette di soddisfare le esigenze di flessibilità delle imprese e dei lavoratori, ed è un presupposto per la conciliazione dei tempi lavoro/famiglia. Inoltre, le modifiche introdotte per il lavoro a tempo parziale sono finalizzate non solo a favorire il ricorso a questa tipologia contrattuale ma anche ad eludere l’offerta di prestazioni flessibili prive di tutele adeguate per i lavoratori, in particolare per quelle fasce cosiddette deboli. Nello spirito della Riforma, il part-time vuole rappresentare un canale di accesso al mercato del lavoro regolare e, attraverso l’alleggerimento di alcune pastoie burocratiche se ne vuole «semplificare» il ricorso, attribuendo alla contrattazione collettiva ed individuale piena operatività.

Nonostante la valorizzazione del tempo parziale, il suo utilizzo in Italia resta ancora limitato rispetto agli altri Paesi europei e non è da sottovalutare, neppure, il perdurare degli antichi riflessi negativi, che la scelta del part-time può comportare in termini di condizioni lavorative, di qualifiche, di mansioni e di percorsi di carriera. Inoltra, il part-time non è sempre scelto ma talvolta subito in quanto rappresenta l’unica opportunità di ingresso nel mercato del lavoro, soprattutto in quelle zone dove il lavoro manca.
Il Rapporto Isfol 2003 ha registrato, rispetto al 2002, una crescita dell’occupazione e in particolare dell’occupazione femminile, con un aumento di 128 mila unità, di cui un 40% è rappresentato da lavoratrici che hanno fatto ricorso al part-time. È significativo che circa il 98% delle persone che scelgono di lavorare a tempo parziale siano donne chiamate all’impegno familiare, per le quali la scelta di rendere flessibile l’orario di lavoro è fondamentale e l’alternativa è, molto spesso, essere costrette a rinunciare al lavoro.

Il tempo parziale aumenta le probabilità di ingresso femminile nel mondo del lavoro e rappresenta un’opportunità di conciliazione, in particolare per le madri lavoratrici con figli piccoli; ma quando i figli crescono la forma del part-time rischia di rivelarsi uno svantaggio e, quindi, la sua reversibilità con il tempo pieno diventa decisiva per evitare la segregazione occupazionale.

Si auspica che, nei futuri scenari occupazionali, le pratiche di conciliazione e di flessibilità riguardino anche gli uomini, chiamati sempre di più a seguire i percorsi di integrazione tra vita e lavoro.

7. Alcuni strumenti di flessibilità

Siamo partiti dalla considerazione che la conciliazione dei tempi dedicati alla famiglia con quelli del lavoro è almeno «sulla carta» una via percorribile: il part-time, il telelavoro, gli orari ed i turni flessibili, il lavoro a domicilio, ecc. sono alcuni tra i tanti strumenti che incoraggiano la conciliazione.

La strada aperta dalla Riforma del mercato del lavoro con la Legge Biagi offre nuove e concrete possibilità di conciliazione della vita familiare con quella lavorativa, soprattutto per quanto riguarda gli strumenti di flessibilità degli orari e dell’organizzazione del lavoro, che garantiscono nuove e differenziate forme di accesso al sistema occupazione.

Di seguito, una breve elencazione non esauriente di alcuni degli strumenti della flessibilità.

Il lavoro ripartito, presente in alcune realtà locali in forma sperimentale, è ancora poco utilizzato in Italia, sebbene rappresenti un esempio concreto di migliore gestione dei tempi di vita e di lavoro. Il lavoro ripartito (o job sharing) coinvolge due lavoratori nell’assunzione in solido dell’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa e può essere stipulato a termine o a tempo indeterminato. La possibilità di conciliare i tempi di lavoro e di vita si associa alla capacità dei due lavoratori di gestire autonomamente le modalità temporali di esecuzione della prestazione (turni, distribuzione dell’orario di lavoro, assenze, sostituzioni, etc). In nessun caso il datore può opporsi alla ripartizione dell’attività lavorativa stabilita dai due lavoratori.

Il lavoro occasionale accessorio comprende tutte le attività lavorative di natura occasionale svolte da soggetti a rischio di esclusione sociale o, comunque, non ancora entrati nel mercato del lavoro o in procinto di uscirne (per esempio disoccupati da oltre un anno, casalinghe, studenti, pensionati disabili e soggetti in comunità di recupero, lavoratori extracomunitari con regolare permesso di soggiorno, nei sei mesi successivi alla perdita del lavoro).

Il contratto di lavoro a progetto è un contratto di collaborazione coordinata e continuativa riconducibile a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso. Il Dlgs 276/2003 prevede una maggior tutela del lavoratore (rispetto alle vecchie collaborazioni coordinate e continuative) in caso di malattia, infortunio e gravidanza: in questi casi l’estinzione del rapporto è stata sostituita dalla sospensione non retribuita. In particolare, in caso di gravidanza, è prevista la sospensione del rapporto e la proroga dello stesso per 180 giorni.

Nel contratto di lavoro intermittente (o a chiamata) un lavoratore si pone a disposizione del datore di lavoro per svolgere determinate prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, o per svolgere prestazioni in determinati periodi nell’arco della settimana, del mese o dell’anno (come nei week-end, durante le ferie estive, le vacanze pasquali o natalizie).

Rientra nella categoria degli strumenti di conciliazione il dispositivo dei «voucher» definito nell’ambito delle azioni finanziate dal Fondo Sociale Europeo nel rispetto delle pari opportunità; l’ intervento è ancora spendibile in chiave di sperimentazione ed innovatività e copre un raggio di azione potenzialmente più ampio di quello attuale effettivo. I «voucher per la conciliazione» sono volti a favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, la conciliazione dei tempi e le esigenze di aggiornamento e di formazione; attraverso questo sistema si offre una «compartecipazione alle spese per servizi che rispondono a specifiche esigenze di conciliazione, espresse da donne e uomini. Si può trattare di buoni prepagati oppure di rimborsi per l’acquisto di servizi finalizzati ala conciliazione:servizi per bambini e ragazzi (da 0 a 15 anni), servizi per anziani o persone non autosufficienti, servizi di supporto alla gestione della vita familiare». I vaucher sono misure di supporto alla fruizione di servizi; in sostanza si offrono come dispostivi che, per essere maggiormente definiti, richiedono una base di contestualizzazione nell’area dei servizi alle famiglie; allo stato attuale la loro applicazione non è molto diffusa anche se non mancano esperienze d’eccellenza avviate da alcune Regioni.

Sebbene la flessibilità sia una condizione necessaria e indispensabile per realizzare percorsi di conciliazione, non è però un elemento sufficiente. Occorre anche sviluppare un insieme di servizi alla persona che permettano a donne e uomini di conciliare davvero la cura della famiglia con la carriera professionale, garantendo così di fatto anche il rispetto del principio di parità tra uomini e donne e di non discriminazione di genere.

Questo implica anche un doppio impegno di programmazione, politica e imprenditoriale. Da un lato infatti si rendono necessari strumenti e servizi per le famiglie di tipo formale (assegni famigliari, fondi per asili nido, assistenza per anziani, malati e fasce deboli) e informale (Rete delle Banche del tempo, voucher, associazioni di volontariato); dall’altro è necessario anche un cambiamento, a volte radicale, della cultura dell’organizzazione aziendale, che deve incentivare il ricorso a forme di lavoro con orari e modalità non standard (part-time, job sharing, lavoro a progetto, telelavoro, lavoro a domicilio) e garantire percorsi di aggiornamento, formazione e sviluppo professionale anche a coloro che rientrano al lavoro dopo periodi di assenza dedicati alla cura della famiglia (piani formativi, congedi, formazione continua).

Gli strumenti normativi e la loro corretta applicazione dovrebbero soprattutto evitare che la flessibilità che facilita l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro si traduca in seguito in un ostacolo alla loro permanenza e crescita professionale e diventi una discriminante rispetto ai colleghi.

8. Considerazioni conclusive

Appare evidente che, la legittimazione sociale che le donne hanno conquistato sia la classica condizione necessaria ma non sufficiente e che bisogna riconsiderare le politiche di pari opportunità, insistendo sul passaggio dalla «teoria» alle «buone prassi», rafforzando la rappresentanza femminile nei luoghi di potere e nei diversi livelli decisionali, senza dare per scontato quello che sembra garantito in quanto stabilito dalle leggi. Serve un passaggio da una parità formale e garantita in linea di principio ad una parità sostanziale, basata su prassi giuste. È necessario trasferire la «legittimazione collettiva» e teorica sul piano dell’empowerment reale e della diffusione, orizzontale e verticale, del mainstreaming, secondo un approccio di genere integrato e trasversale a tutte le politiche pubbliche.

Dieci anni dopo la quarta Conferenza mondiale sulla donna (Beijing, 1995), l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha riunito a New York (26 febbraio – 11 marzo 2005) i Governi di 189 Paesi, per monitorare i progressi compiuti in materia (secondo i piani tracciati nel 1995 nella Dichiarazione e Piattaforma d’Azione, nonché i risultati della XXIII Sessione Speciale dell’Assemblea generale nel 2000) e definire gli obiettivi prioritari da perseguire per la piena realizzazione della parità tra uomo.

A distanza di dieci anni, si continuano a riscontrare forme discriminatorie e segreganti; e nel mondo del lavoro e della rappresentanza politica si rivelano i paradossi di genere più evidenti che sottolineano lo scarto esistente tra parità formale ed acquisita e quella sostanziale.

La Conferenza di New York ha rafforzato la percezione diffusa che, nonostante i passi compiuti in questi anni, tra affermazioni ed acquisizioni femminili, non c’è gender mainstreaming senza l’ empowerment delle donne. E la strada è ancora lunga.

Il «Welfare delle donne» passa attraverso la sottoscrizione di un «Patto sociale della conciliazione», riferito all’interazione necessaria di tre sistemi: le imprese, che regolano intensità, tempi e forme di organizzazione del lavoro; le famiglie, al cui interno si definiscono le forme di condivisione del lavoro di cura; e la società, che imposta le modalità di erogazione dei servizi.

Un Welfare attivo, dunque, e solidale, comunque ispirato ai principi di sussidiarietà e di sostenibilità; un Welfare «familiarizzato» e comunitario che al posto della tutela introduca il concetto di convivenza, al posto della protezione realizzi l’integrazione. Un modello di Welfare familistico che intrecci un possente operato pubblico centrale – non centralistico ed autoreferenziale – con le reti spontanee di solidarietà e con i segmenti di Welfare locale, solidale e non assistenziale.

Appendice

Si è ritenuto opportuno inserire, in appendice, un elenco non esaustivo dei principali interventi legislativi in materia di maternità , in considerazione del fatto che le scelte procreative continuino a rappresentare una criticità per la conciliazione lavoro-famiglia, nonostante le leggi innovative sul tema.

Tutela del rapporto di lavoro

La lavoratrice madre o gestante ha diritto alla maternità senza dover per questo subire conseguenze discriminatorie o penalizzanti nel rapporto di lavoro. La normativa prevede specifiche forme di tutela che garantiscono alla donna una vita familiare e pari possibilità di carriera rispetto agli uomini:

Divieto di licenziamento

Il datore di lavoro non può licenziare la lavoratrice dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino. Le domande di congedo parentale e per malattia del bambino non possono essere causa di licenziamento. Se la lavoratrice viene licenziata, l’atto è nullo e la donna ha diritto al reintegro nel posto di lavoro. Le stesse norme valgono anche in caso di adozione e/o affidamento e per le lavoratrici a domicilio. (Dlgs 151/2001, art. 54).

Divieto di lavoro notturno, pesante o insalubre

Per tutelare la salute della donna e del nascituro, dall’accertamento della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino, la donna non può essere adibita al lavoro notturno (dalle 24.00 alle 6.00). Durante la gravidanza e fino al compimento del settimo mese del bambino è anche vietato assegnare la lavoratrice madre al trasporto e sollevamento di pesi e a lavori pericolosi, faticosi e insalubri, tra i quali, per esempio, quelli che espongono a sostanze tossiche e/o radiazioni ionizzanti, quelli che costringono a salire su scale e impalcature o a stare in piedi per più della metà dell’orario di lavoro, l’assistenza a malati in sanatori e reparti di malattie infettive, il lavoro a bordo di navi, aerei, treni, pullman etc. (Dpr 1026/1976, art. 5). In questi casi la lavoratrice deve essere temporaneamente assegnata ad altre mansioni, mantenendo comunque la retribuzione percepita fino a quel momento. Se ciò non fosse possibile, la DPL di competenza (Direzione provinciale del lavoro) può interdire la donna dal lavoro fino al settimo mese di vita del bambino. (Dlgs 151/2001, art. 7 e 53).

Congedo obbligatorio

È il periodo di astensione obbligatoria in cui le donne in gravidanza e neo-mamme non devono lavorare. Si tratta dei cinque mesi a cavallo del parto: dai due mesi antecedenti la data prevista, fino ai tre mesi successivi a quella effettiva. Se il Servizio sanitario nazionale attesta che non esistono controindicazioni per la salute della gestante e del nascituro, i cinque mesi possono essere spostati da un mese prima a quattro mesi dopo il parto. In caso di lavoro a rischio, il divieto di adibire la gestante al lavoro può essere esteso fino al terzo mese antecedente la data prevista del parto, dietro specifica

disposizione della DPL. Il congedo obbligatorio spetta alle lavoratrici dipendenti a tempo pieno e part-time, alle domestiche e alle lavoratrici a domicilio. Le lavoratrici a progetto hanno diritto alla sospensione del contratto e alla conseguente proroga per un periodo di 180 giorni. (Dlgs 151/2001, art. 16-17).

Congedo parentale

È il periodo di assenza facoltativa dal lavoro che può essere chiesto alternativamente da entrambi i genitori nei primi otto anni di vita del bambino, in modo continuato o frazionato, per un periodo complessivo massimo di dieci mesi. Ciascun genitore può chiedere un massimo di sei mesi. Se è il padre a chiederne almeno tre, il limite complessivo si eleva a undici mesi. La madre può chiedere il congedo parentale solo al termine del congedo obbligatorio, mentre il padre dal momento della nascita del figlio. In caso di parto plurimo, i mesi di congedo parentale sono moltiplicati per ciascun figlio (Circolare Inps 569 del 2001). Le stesse norme valgono in caso di adozione e/o affidamento e il calcolo dei mesi di congedo decorre dal momento dell’ingresso del bambino in famiglia. (Dlgs 151/2001, art. 32).

Riposi giornalieri e permessi

Fino al primo anno di età del bambino, la madre ha diritto a due riposi giornalieri retribuiti, di un’ora ciascuno (anche cumulabili), per l’allattamento. Per i contratti di lavoro con orario inferiore alle 6 ore giornaliere, il riposo è uno solo. Se la madre usufruisce di un asilo aziendale istituito dal datore di lavoro nella sede o nelle immediate vicinanze, i periodi di riposo sono di mezzora ciascuno. I riposi possono essere richiesti anche dal padre lavoratore se la madre non usufruisce dei riposi, è una lavoratrice autonoma, o se il figlio è affidato al solo padre. Entrambi i genitori, sempre alternativamente, possono assentarsi dal lavoro in caso di malattia del bambino, entro il suo terzo anno di vita, presentando un certificato medico. Dal terzo all’ottavo anno del bambino, i congedi per malattia ammontano a un massimo di cinque giorni lavorativi annui per ciascun genitore. Non hanno diritto ai permessi le lavoratrici domestiche, a domicilio e autonome (Dlgs 151/2001, art. 39 e seguenti).

Fondo per asili nido

Per facilitare la conciliazione tra vita familiare e lavorativa e garantire le pari opportunità tra uomini e donne, la legge finanziaria 2002 ha istituito un Fondo per la costruzione e gestione di asili nido e micro-nidi nei luoghi di lavoro. La dotazione finanziaria è stata di 50 milioni di euro per il 2002, 100 milioni per il 2003 e 150 per il 2004. Possono beneficiarne i Comuni, singoli o associati, che ne fanno richiesta, le amministrazioni dello Stato, gli Enti pubblici nazionali e i datori di lavoro privati. I micro-asili aziendali rientrano

nel sistema dei servizi per la prima infanzia, disciplinati dalla normativa regionale e da appositi regolamenti comunali. Sono ammessi i bambini da tre mesi a tre anni, figli di dipendenti e, dove possibile, di residenti nel territorio limitrofo. Le spese di gestione sono deducibili dall’Irpef dei genitori e dei datori di lavoro. Entro il 30 settembre di ogni anno il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con quello dell’Economia e finanze, emana un decreto con la ripartizione delle risorse del Fondo per regione (Legge 448/2001).

Indennità di maternità per le dipendenti

Le madri lavoratrici dipendenti hanno diritto a ricevere una indennità sostitutiva della normale retribuzione per i periodi di assenza dal lavoro (sia obbligatoria, sia facoltativa) a seguito della nascita, adozione, affidamento del figlio, interruzione di gravidanza o parto prematuro. Per il periodo di congedo di maternità (astensione obbligatoria da due mesi prima del parto a tre mesi dopo) spetta l’80% della retribuzione media giornaliera; per il congedo parentale l’importo dell’indennità è pari al 30% nei primi sei mesi di assenza ed entro il terzo anno di età del bambino; dal settimo mese di congedo e fino agli otto anni del bambino l’indennità viene pagata solo se il reddito del genitore che lo richiede non supera di due volte e mezza l’importo del trattamento minimo di pensione in vigore a quella data. L’interruzione di gravidanza dopo il 180° giorno di gestazione (prima viene considerata malattia e tutelata come tale) dà diritto alla stessa indennità della maternità; il parto prematuro dà diritto allo slittamento del periodo di assenza obbligatoria non goduto (che va a sommarsi ai tre mesi post-parto) e a una indennità dell’80% della retribuzione fino al quinto mese dopo il parto. L’indennità è pagata dall’Inps e anticipata dal datore di lavoro. Non viene cancellata dalla lista di mobilità la donna che nel periodo di congedo obbligatorio rifiuta l’offerta di lavoro in servizi di pubblica utilità o l’avviamento a corsi di formazione professionale. Hanno diritto all’indennità anche le lavoratrici che, all’inizio del congedo obbligatorio, sono disoccupate da non oltre 60 giorni. (Dlgs 151/2001, art. 22-23).

Indennità di maternità per le parasubordinate e le autonome

Anche le lavoratrici parasubordinate e autonome e hanno diritto all’indennità per i periodi di astensione dal lavoro durante la maternità. Le prime non hanno l’obbligo di astensione dal lavoro nei due mesi prima del parto e nei tre successivi, ma se sono iscritte alla gestione separata e versano all’Inps lo specifico contributo dello 0,5%, possono beneficiare dell’indennità per astensione obbligatoria (80% della retribuzione media giornaliera se sono state versate nei 12 mesi precedenti almeno 3 mensilità di contribuzione; altrimenti importi variabili a seconda dei contributi accreditati). Nel caso di lavoratrici a progetto, viene preso come riferimento il reddito dei 12 mesi antecedenti la maternità (risultante dai versamenti contributivi per quel lavoratore dichiarati dal committente). Le lavoratrici autonome iscritte prima della maternità negli elenchi degli artigiani, commercianti, coltivatori diretti, mezzadri o coloni e che sono in regola con i contributi, hanno diritto all’indennità dell’80% delle retribuzioni convenzionali per i due mesi prima del parto e per i tre successivi, pur non essendoci l’obbligo di astensione dal lavoro. Le lavoratrici agricole devono aver effettuato almeno 51 giornate di lavoro nell’anno, mentre le domestiche devono aver versato almeno un anno di contributi nei due anni precedenti il periodo di assenza o almeno sei mesi nell’anno precedente. Tutte hanno diritto anche all’indennità per astensione facoltativa (tre mesi entro il primo anno di età del bambino) pari al 30% delle retribuzioni convenzionali. Le libere professioniste iscritte alle Casse professionali di previdenza e assistenza non hanno l’obbligo di astensione ma hanno diritto alla indennità economica in caso decidano di sospendere le attività nei due mesi precedenti il parto e nei tre successivi. La percentuale (80%) viene calcolata sulla base del reddito percepito nei due anni precedenti la maternità e comunque entro il limite massimo di cinque volte il salario minimo giornaliero. Le singole Casse possono stabilire limiti più elevati. (Dlgs 151/2001, art. 64-66).

Assegno di maternità

Le madri che al momento del parto o dell’ingresso in famiglia di un bambino in adozione o in affidamento non lavorano, hanno diritto all’assegno di maternità. Può essere erogato dall’Inps o dal Comune di residenza; nel primo caso la madre deve essere residente in Italia, cittadina italiana, comunitaria o extra-comunitaria con carta di soggiorno, deve essersi dimessa volontariamente dal lavoro durante la gravidanza e aver maturato almeno 3 mesi di contribuzione nel periodo compreso tra i 18 e i 9 mesi precedenti il parto. Oppure deve aver già goduto di una assistenza dell’Inps (per esempio per malattia o disoccupazione) ma dalla data della prestazione a quella del parto non devono essere trascorsi più di 9 mesi. L’assegno è pagato direttamente dall’Inps e deve essere richiesto entro 6 mesi dalla nascita del figlio o dal suo ingresso in famiglia; per il 2004 l’importo è pari a 1.713,55 euro in un’unica soluzione. Nel caso di assegno da parte del Comune di residenza, la donna italiana, comunitaria o extra-comunitaria con carta di soggiorno, non deve beneficiare di altre forme previdenziali e il reddito familiare non deve superare il tetto previsto dall’ISE (indicatore della situazione economica: per il 2004 pari a 29.016 euro per un nucleo di tre persone). Deve essere richiesto al Comune di residenza entro 6 mesi dalla nascita o dall’ingresso del figlio in famiglia e viene pagato dall’Inps in un’unica soluzione entro 45 giorni dalla ricezione dei dati da parte del Comune; per il 2004 è pari a 1.391,75 euro. Per il 2004 la legge finanziaria ha previsto un ulteriore sussidio per le donne residenti italiane o comunitarie: l’assegno di 1.000 euro per il secondo figlio (uno per ogni figlio in caso di parto plurimo o adozione plurima). Il Comune trasmette (entro 10 giorni dalla registrazione all’anagrafe della nascita o adozione) i dati all’Inps che ha altri 30 giorni per pagare l’assegno. Può essere cumulato con altre forme di previdenza e non è soggetto a limiti di reddito (Dlgs 151/2001, art. 74).

Agevolazioni per genitori di portatori di handicap grave

La maternità e la paternità, nel caso di genitori di persone con handicap grave, sono tutelate in maniera particolare: si ha diritto a una estensione fino a tre anni del congedo parentale (a condizione che il bambino non sia ricoverato a tempo pieno presso istituti specializzati) o, in alternativa, al prolungamento di una o due ore di permesso retribuito al giorno (a seconda dell’orario di lavoro), fino al terzo anno di età del bambino e a tre giorni al mese di permesso retribuito, anche continuativi, dal terzo anno fino ai 18 (e oltre nel caso di convivenza o assistenza continuativa ed esclusiva). Le agevolazioni spettano al genitore lavoratore anche quando l’altro non lavora e ai genitori adottivi e affidatari. Dal 2001 è stato introdotto un congedo straordinario, per l’assistenza a figli con handicap grave, che spetta ai genitori naturali, adottivi o affidatari e ai fratelli e sorelle (in caso di decesso di entrambi i genitori). Ha una durata massima di due anni nell’arco della vita lavorativa e può essere frazionato in giorni, settimane e mesi. Dà diritto a una indennità pari all’ultima retribuzione percepita. Le agevolazioni relative ai permessi mensili non sono riservate solo ai lavoratori genitori, ma anche a coloro che assistono un parente o affine (entro il terzo grado) con handicap grave. I lavoratori (genitori o familiari) che assistono con continuità ed esclusività un parente con handicap grave hanno inoltre diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non possono essere trasferiti senza il proprio consenso ad altra sede. (Dlgs 151/2001, art. 33 e 42; Legge 53/2000 art. 19-20; Legge 104/1992, art. 33; Circolare Inps 133/2000 art. 2.3).

Azioni positive per la flessibilità

La legge 53/2000, a sostegno della maternità e della paternità, prevede una misura specifica per finanziare le aziende che promuovono azioni per la conciliazione tra le esigenze di lavoro ed esigenze di cura familiare. Ogni anno vengono stanziati circa 20 milioni di euro per le aziende (in particolare piccole e medie imprese a cui è destinato il 50% dei fondi) che presentano tre tipi di azioni: a) progetti per permettere a lavoratori e lavoratrici di usufruire di particolari forme di flessibilità di orario di lavoro (part-time reversibile, telelavoro, lavoro a domicilio, banca del tempo e delle ore etc); b) programmi di formazione per il reinserimento dei lavoratori e delle lavoratrici dopo i periodi di congedo per la cura della famiglia; c) progetti per la sostituzione del titolare d’impresa o del lavoratore autonomo che beneficino dei congedi parentali, con altro imprenditore o lavoratore autonomo. Tutti i progetti possono avere una durata massima di 24 mesi e per ottenere i finanziamenti è indispensabile che siano accompagnati da un accordo sindacale: per quanto riguarda le azioni a) e b) l’accordo deve essere siglato con i sindacati territoriali o aziendali; per l’azione c) con le associazioni datoriali di riferimento. La legge prevede delle priorità per progetti e/o soggetti in possesso di determinati requisiti, come nel caso di destinatari con figli fino a 8 anni età o fino a 12 se in affidamento o adozione (priorità per progetti di flessibilità di orario) o figli fino a un anno di età (priorità per la sostituzione dell’imprenditore) oppure per progetti che aderiscono a sperimentazioni pilota promosse dalle autonomie locali, finalizzate alla creazione di una rete di supporto alle politiche di conciliazione. Le domande vanno presentate al Ministero del lavoro e delle politiche sociali , secondo scadenze prestabilite.

Isabella Rauti

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Accanto al modello tradizionale di famiglia nucleare stabile, crescono le «nuove famiglie», quelle monogenitoriali, quelle unipersonali, le unioni libere, le famiglie ricostruite.

Le famiglie povere sono 4 milioni: il 10,6% vive sotto la soglia di povertà, un altro 7,9% è a rischio. La Sicilia è la regione italiana con il più alto tasso di povertà (25,5%) contro il record opposto registrato dal Veneto (4%). (Fonte: Istat 2004, dati rilevati per il 2003).

Dagli anni novanta è aumentata l’attenzione e con essa, lo sforzo da parte delle amministrazioni locali sui servizi e le politiche a sostegno della famiglia. Molte le legislazioni regionali sulla famiglia e la regionalizzazione degli interventi; interventi mirati e più rispondenti alle diversificate esigenze delle famiglie sul territorio. Ma anche risorse diverse, solo un dato: se la spesa per le prestazioni sociali nei comuni è salita in 4 anni del 52% si è allargato il divario tra un Nord del Paese in cui si stanziano per il sociale 114 euro ogni 1000 abitanti mentre al sud 83 euro ogni mille abitanti, al centro 106 (Fonte: Rapporto Istat, 2004).

Cnel (2004), Rapporto sul Mercato del lavoro 2003, Roma. [CITARE CORRETTAMENTE IN BASE ALLE NORME EDITORIALI]

Cfr. (2004), Sabbadini, L.L. (a cura di),  Come cambia la vita delle donne , Roma, Istat. [CITARE CORRETTAMENTE IN BASE ALLE NORME EDITORIALI]

Cfr. anche i risultati del seminario su «Maternità e partecipazione delle donne al mercato del lavoro tra vincoli e strategie di conciliazione» , 2003, Roma, Cnel-Istat.. [CITARE CORRETTAMENTE IN BASE ALLE NORME EDITORIALI]

Tra gli altri interventi è bene ricordare la Direttiva 96/34/ CE del Consiglio Europeo (3 giugno 1996), sui «Congedi parentali e per motivi familiari», modificata con la Direttiva 97/75/CE del Consiglio del 15 Dicembre 1997.

Attraverso il Fondo Sociale Europeo (Fse) nel periodo 2000-2004, l’Italia ha speso oltre 556,5 milioni di euro per le politiche di pari opportunità.

In sintonia con la prospettiva di genere adottata dalla SEO, anche l’Iniziativa Comunitaria Equal (2000-2006) affronta i temi delle pari opportunità; il programma è una strategia combinata di azioni trasversali dedicata alle pari opportunità ed assunte secondo una prospettiva di genere.

Una recente elaborazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali su dati Istat riporta che nel 2003 il tasso generale di occupazione risulta pari al 56%, con un persistente divario tra l’occupazione maschile (69,3%) e quella femminile (42,7%), sebbene questa nell’ultimo decennio sia sempre cresciuta leggermente di più rispetto alla prima, e con notevoli differenze di distribuzione geografica. I dati più recenti forniti dal Ministero del Lavoro sul mercato femminile confermano nel 2004 un incremento  ed un tasso di occupazione femminile che ha raggiunto il 45,1%.

cfr..  Come cambia la vita delle donne ,Istat, 2004.

La legge prevede interventi al livello centrale e locale per la sperimentazione di servizi socio-educativi per la prima infanzia.

E’ stato calcolato che il 20,1% delle madri occupate al momento della gravidanza, lascia il posto di lavoro dopo la nascita del figlio; 6 neomadri lavoratrici su cento vengono licenziate dopo il parto, il 14 % di chi lavorava in gravidanza, abbandona il lavoro, perché complessivamente l’occupazione si rivela poco conveniente (soprattutto nel settore privato e negli impieghi precari e poco remunerati) e comunque difficilmente conciliabile con i nuovi impegni familiari (Fonte: Istat-Cnel,2003).

Cfr. Cnel-Istat, Maternità e partecipazione delle donne al mercato del lavoro: tra vincoli e strategie di conciliazione, Roma, 2003. [CITARE CORRETTAMENTE IN BASE ALLE NORME EDITORIALI]

Cfr. Come cambia la vita delle donne , cit.

La Riforma Biagi permette una maggiore flessibilità nella gestione dell’orario di lavoro e prevede minori vincoli per la richiesta di prestazione di: a) lavoro supplementare (oltre l’orario di lavoro stabilito nel contratto part-time orizzontale, ma entro il limite del tempo pieno); b)  lavoro straordinario (oltre il normale orario di lavoro full time. Ammissibile solo nel part-time verticale o misto anche a tempo determinato); c) lavoro elastico (prestato per periodi di tempo maggiori rispetto a quelli definiti nel contratto part-time verticale o misto); d) lavoro flessibile (prestato in periodi di tempo diversi rispetto a quelli fissati in tutte e tre le tipologie di lavoro part-time). Il Par-t time può essere di tre tipi: a) orizzontale quando la riduzione d’orario è riferita al normale orario giornaliero; b) verticale quando la prestazione è svolta a tempo pieno ma per periodi predeterminati nella settimana, nel mese e nell’anno; c) misto quando è articolato combinando le modalità orizzontale e verticale. Il lavoratore, assunto con un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, ha diritto allo stesso trattamento normativo dei lavoratori assunti a tempo pieno e ha tutte le garanzie relative al trattamento della malattia e infortunio, alla durata del periodo di ferie, del congedo di maternità e del congedo parentale. Generalmente la retribuzione, l’importo dei trattamenti economici per malattia, l’infortunio e la maternità vengono calcolati in maniera proporzionale al numero di ore lavorate.

Il contratto di lavoro occasionale accessorio favorisce: a) l’emersione del sommerso che caratterizza alcune prestazioni lavorative; b) la tutela dei lavoratori che altrimenti opererebbero senza protezione; c) l’inserimento lavorativo di fasce deboli del mercato del lavoro, aumentando le possibilità di lavoro presso le famiglie e gli enti senza fine di lucro.

Il 24 ottobre 2004, a un anno dalla Riforma Biagi, il contratto a progetto ha definitivamente sostituito tutte le collaborazioni coordinate e continuative. Quella data rappresentava infatti il termine ultimo per la trasformazione delle co.co.co. in lavoro a progetto, lavoro subordinato, o per la transizione verso le altre formule flessibili previste dalla Biagi. Sono invece valide fino al 24 ottobre 2005 le collaborazioni stipulate nell’ambito di accordi sindacali di transizione al nuovo regime (una proroga prevista dall’art.20 del Dlgs 251/2004).

Rapporto CNEL, Mercato del lavoro 2003, p. 96.

Le banche del tempo sono banche virtuali in cui si depositano capacità, servizi, aiuti generici e bisogni, per un libero e reciproco scambio «in tempo».

Oggi, inoltre, sta maturando un’interpretazione estensiva del concetto di pari opportunità che non riguarderebbe più, soltanto ed in via esclusiva le pari opportunità legate al genere ma prenderebbe in considerazione anche le pari opportunità di tutti gli appartenenti al sistema sociale, con particolare riferimento ai gruppi vulnerabili e svantaggiati. L’articolazione più ampia delle politiche di pari opportunità si lega ad un mutato e mutante contesto socioeconomico caratterizzato da forme crescenti di sperequazione, dall’allargamento delle aree di povertà quantitativa e qualitativa e dall’aumento di fasce di emarginazione ed esclusione sociale.

Cfr. Rapporto CNEL, Mercato del lavoro 2003, cit.

Nel 2004 sono stati finanziati 60 progetti (L.53/2000) in tema di flessibilità organizzativa a favore della conciliazione dei tempi, con un incremento di circa il 30% rispetto all’anno precedente.


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